Zweig e l’estetica del totalitarismo

E come potevamo noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici, 1945

Immaginate di dovervi portare sempre appresso una versione miniaturizzata di mondo per potervi muovere al suo interno, per esplorarlo in tutte le sue possibili combinazioni, arrivare a quella successione di mosse che, se siete abili e fortunati, vi condurrà al vostro personalissimo scacco, e il re, ormai senza via di fuga, si accascerà trafitto sul quadratino matto, guardando con gli occhi stanchi e indiavolati l’infinito che si dipana oltre il bordo della scacchiera, là dove rotola la sua corona e la vostra vittoria, prima di spegnersi per sempre.

Questa è la storia di Czentovic, campione di scacchismo innato e ottusità intellettuale, nonché protagonista inconsapevole della carneficina allegorica messa in atto da Zweig: «Non riuscì mai a giocare una sola partita a memoria, o come si dice in gergo tecnico, alla cieca. Gli mancava del tutto la capacità di collocare il campo di battaglia nello spazio sconfinato della fantasia. Doveva sempre avere davanti a sé, tangibilmente, il quadrato bianco e nero con le sessantaquattro case e i trentadue pezzi; ancora al tempo della sua fama mondiale, portava sempre con sé una scacchiera pieghevole da tasca, per rappresentarsi visivamente la posizione quando voleva ricostruire una partita o risolvere un problema per proprio conto».

Zweig, messo sotto scacco dalle notizie provenienti dai fronti di guerra, pare abbia sentito il bisogno di lasciarci un breve testamento romanzato contro il nazismo e qualsiasi forma di totalitarismo, La novella degli scacchi, preludio al suicidio consumato pochi mesi dopo nella città brasiliana di Petropolis, il 22 febbraio 1942.

Non è facile stabilire un limite tra il nulla e l’assoluto: certamente si tratta di confini spennellati di follia, come le staccionate di un recinto in cui si rinchiudono delle pecore bianche e delle pecore nere, e si dice loro belando, affinché possano capire senza fraintendimenti, che quello è il mondo, che nel recinto possono trovare tutto ciò di cui hanno bisogno, se seguono per filo e per segno le regole che lo spazio in cui è dato loro muoversi, desiderare e morire implica, dallo stato di natura al contratto sociale, come insegnano i filosofi, homo homini pecus insomma, e si stabilisce che un insieme di belati ci protegga e magari ci liberi pure dal male, perché alcune cose sono assolutamente giuste e altre assolutamente sbagliate: eppure, se chi bela la legge è un’entità esterna al recinto e garante della protezione delle pecore in quell’assoluto, e se questo belante pastore bidimensionale, oltre a tenere un piede in due scarpe, si rivela anche «un disumano automa degli scacchi» come Czentovic, il quale definisce la diversità una minaccia, e decide che le pecore nere, puta caso, hanno avvelenato gli abbeveratoi comuni e devono scavalcare il recinto e accomodare i loro scheletri nel nulla, be’, allora siamo di fronte al tipico belato totalitarista che, non solo ai tempi del nazismo, ma anche oggi, falcidia in modo scioccamente masochistico la possibilità di una società equa, balzando dal web al governo in guisa di nevrosi trash conservatrice, che ignora con orgoglio le regole della dignità ovina e non solo.

Zweig elabora un’estetica del totalitarismo servendosi della scacchiera come sfondo della sua romantica disperazione per un mondo alla deriva, stipato in un’arca che non è salvifica, ma un covo di pecore bianche e nere che galleggia a vuoto in attesa del macello, una «grande nave, che a mezzanotte doveva salpare da New York per Buenos Aires», in cui si gioca una partita che termina per «avvelenamento da scacchi», per overdose immaginativa di chi, fino a quel momento storico, aveva creduto fermamente nella possibilità di cambiare il mondo con l’immaginazione e adesso si ritrova a farsi calpestare il cuore e a scendere a patti assurdi con chi il mondo non sente nemmeno il bisogno di rappresentarlo, ma solo di manipolarlo, mettendoselo in tasca come un cubo di Rubik da tirare fuori ogni tanto per noia, ruotandolo senza sentimento, mentre dai quadratini sciami di pecore nere precipitano e affogano metodicamente nel nulla. E non c’è niente di più folle dell’imposizione metodica del nulla, come ricorda il dott. B, alter ego dell’autore (ebreo + austriaco), sconfitto nel duello finale dalla tonta e spietata follia del dittatore Czentovic, più che per scarsa abilità nel gioco, per la malattia interiore maturata nelle prigioni delle SS, emblema di un umanesimo umiliato, incapace di ribellarsi e infinitamente condannato, dai confini da se stesso imposti, a piegarsi al «ridicolo compito di spingere in un angolo un re di legno su una tavola di legno»: «Non ci facevano alcunché» racconta il dott. B «ci collocavano solo nel nulla totale, perché, come è noto, nessuna cosa sulla terra esercita una tale pressione sull’anima umana, come il nulla. Chiudendo ciascuno di noi in un vuoto completo, in una camera ermeticamente esclusa dal mondo esterno, quella pressione, invece che dall’esterno con le botte e il freddo, doveva esser generata dall’interno, e alla fine ci forzava ad aprire la bocca».

Il paradosso messo in luce ne La novella degli scacchi è che l’istinto di sopravvivenza dell’uomo non risiede solo, come direbbe Kant, nelle inclinazioni sensibili che si oppongono alla ragione pura, ma anche nel processo immaginativo che consente di dare spazio vitale a quella ragione, e però la guerra e il nazismo hanno visto trionfare Czentovic e la germinazione del non spazio totalitario: è l’assenza di immaginazione che rende possibile il nulla e dunque l’imposizione metodica del nulla (distinto da ciò che, per contrasto, si ammette come assoluto, plausibile recinto), e il racconto del dott. B, prigioniero delle SS, testimonia sia la logica perversa del confine tra l’assoluto e il nulla, sia la certezza che non è un’utopia ribellarsi allo schiamazzo politico di chi rovescia le pecore nere nel vuoto dalla microscacchiera del Czentovic di turno, perché è un gesto naturale e replicabile, come rubare un libro dal taschino di una guardia, imparare tutte le mosse e riprodurle con linee di polvere tracciate sul lenzuolo della cella. Anche questa è un’ossessione, ma è nella nostra indole essere dipendenti da qualcuno o qualcosa, un po’ come il destino di una pecora dipende da come il colore della sua pelliccia viene percepito nel recinto, e se questa dipendenza porta alla libertà, forse siamo in grado di salvare le pecore che cadono e costruire recinti più fluidi e umanamente sostenibili: «Forse, riflettei, potrei costruirmi nella mia cella una specie di scacchiera e poi cercar di rifare queste partite; mi sembrò un segno celeste che il lenzuolo, per combinazione, avesse un grossolano disegno a quadretti. Ben piegato, alla fine mi fu possibile disporlo in modo da ottenere sessantaquattro case. Perciò innanzitutto nascosi il libro sotto il materasso e strappai la prima pagina. Poi cominciai a modellare, con le briciole risparmiate dalla mia pagnotta, i pezzi degli scacchi, il re, la regina, eccetera, in modo naturalmente approssimativo e ridicolo; dopo infiniti sforzi potei alla fine accingermi a ricostruire sul lenzuolo a quadri le posizioni raffigurate sul libro».

Nel 1933 le opere di Stefan Zweig furono bruciate dai nazisti, insieme a quelle di Sigmund Freud, Thomas Mann e Albert Einstein, perché Zweig è pericoloso: è un autore pacifista, europeista, ma soprattutto romantico. Nei suoi scritti c’è quasi sempre una scintilla di speranza, a volte ironica ma sempre sincera, e la speranza spaventa i Czentovic dallo scacchismo innato. La novella degli scacchi ha il sapore della fine, sembra un testo scritto con le lacrime agli occhi da un re senza corona che non ha più la forza di guardare oltre, sembra trasporre in finzione narrativa il concetto di fine della storia elaborato da Francis Fukuyama più di mezzo secolo dopo. Tuttavia, per Zweig l’immaginazione è più forte delle lacrime, è più forte del pane (il dott B. non mangia le briciole avanzate, ci costruisce le pedine della sua scacchiera), e per innescare l’immaginazione basta la magia di poche «parole allineate». Affinché questa novella non sia letta come una fine, ma come l’invito a iniziare una storia nuova, occorre quindi uno sforzo romantico, essere disposti a sacrificare un po’ di pane quotidiano, raccogliere la polvere dal pavimento e disegnare un’altra scacchiera.

L’Inesistente
Credits: Pablo Maire, Batista – Cuba, de la serie “Dictadores L.A., 2012