Europa e libido secondo Michel Houellebecq

Il colore bianco è veleno per un quadro: usatelo solo per i dettagli luminosi.

Pieter Paul Rubens

La felicità non è il reale scopo delle nostre azioni: il desiderio che costantemente ci spinge ad agire per ottenere ciò che, una volta consumato, ci viene quasi sempre a noia, non è la felicità, è lo strascico di una sposa che se ne va, è la sposa che ci lascia nell’istante in cui ci sposa, mentre noi dall’altare, con in mano gli anelli già coperti di polvere, la vediamo allontanarsi verso il confessionale, come una Lolita dell’oltretomba che, prima di disintegrarsi in un tempo che è già passato e che tornerà a scavarci il petto finendo per ucciderci, ci riserba un ultimo sorriso, velando tutto di bianco.

La felicità, sembra dirci Houellebecq in Serotonina, è un miracolo coloristico puntiforme, un momento che modifica il dipinto dell’esistenza nella sua struttura più intima: le fibre della tela si dilatano o si stringono, spostando le linee che, sulla superficie che assumiamo essere la realtà, sbriciolano la patina di vuoto che le torme delle Lolite spose, andandosene, avevano posato con il loro tocco leggiadramente tossico su tutte le cose; e le cose ora s’illuminano, se non d’immenso, di un cromatismo inaspettatamente puro che trascende l’esperienza soggettiva, la percezione troppo umana che come individui abbiamo di noi stessi, nonché l’identità fasulla tra l’io e il mondo di cui ci autoconvinciamo per rendere sopportabile l’inevitabile sofferenza che precede e segue ogni nostra piccola conquista da animali angelici, forse bestiali, senza dubbio desideranti.

Michel Houellebecq scrive come un vecchio demone cecchino, acciambellato sul cocuzzolo del suo tempio cerebrale a fumare una stecca di Philip Morris, mentre le candide vittime sacrificali si raggomitolano giù nel cortile, in attesa di essere spiate attraverso il mirino di una Steyr Mannlicher, e analizzate con distacco nei loro prevedibili gesti come manifestazione di libido più o meno scioccamente frustrata. L’autore, tuttavia, già noto per il lessico politically incorrect e per il suo sfacciato disprezzo per l’umanità, non è da considerarsi un conservatore né tantomeno uno xenofobo o un razzista, bensì un intellettuale esausto e profondamente deluso dalla politica e dalla società attuali, un profeta armato che non riesce a sparare per cambiare il proprio destino né, a livello simbolico, quello di un’Europa infestata di Lolite sintetiche: «Le mie guance strusciavano sulla moquette e avevo appena capito che era finita, che non avrei sparato, che non sarei riuscito ad alterare il corso delle cose, che i meccanismi dell’infelicità erano più forti, che non avrei mai ritrovato Camille e che saremmo morti soli, infelici e soli, ognuno per conto suo».

Nel campo visivo del vecchio demone cecchino, infatti, brumeggia il bianco della compressa di Captorix, antidepressivo assai in voga che un certo dott. Azote (dal greco antico ἀ- privativa + ζωή ‘vita’) gli ha prescritto per ovattare la tristezza procuratagli dal desiderio sessuale e dalle nostalgie di Lolita memoria da esso dolorosamente evocate, nonostante tra gli effetti collaterali del Captorix vi sia proprio la scomparsa della libido.

La sadica e paradossale meccanica del desiderio descritta in Serotonina riecheggia soprattutto Schopenhauer (ma anche lo stesso De Sade, di cui Florent, il protagonista, s’imbatte in alcuni volumi illustrati); Houellebecq però delinea un quadro ancora più velenosamente impiastricciato di bianco, in cui la Volontà, o meglio deus, non solo è birbante e non fa svolazzare la gonna di una giovane fica umida e indignada, ma è anche ex machina, e interviene occasionalmente, a partire da un semplice ‘Io sono Camille’, a innescare una sequenza di concause intrinseche all’evoluzione della libido che, per una fenomenologia a proporzionalità inversa – per la femmina l’innamoramento è l’inizio di una costruzione in astratto, mentre per il maschio l’innamoramento comincia quando l’edificio di reciproche gioie anelate o promesse è terminato e tangibile – allontana progressivamente e ineluttabilmente i due amanti come i due punti estremi di una curva tracciata su un piano cartesiano.

Le Lolite dell’oltretomba germogliano in qualsiasi luogo, perfino nell’anonima stanza di un Mercure; sfiorano ogni superficie con le loro oblunghe dita da zombi sexy, succhiano gemiti d’amore, immagazzinano screenshot di dettagli luminosi da riproporre quando i due punti estremi della curva potranno vedersi solo col binocolo (Florent ne acquista uno per spiare Camille e il suo bambino avuto da un altro uomo anni dopo la separazione), quindi tornano a stiparsi nel passato con un sorriso, velando tutto di bianco: «Corrispondeva a ciò che ci si poteva aspettare da un Mercure, insomma fu lì che passammo la prima note, ed è probabile che me ne ricordi fino alla fine dei miei giorni, che le immagini di quell’arredamento ridicolo tornino a ossessionarmi fino al termine ultimo, d’altronde stanno già tornando ogni sera, e so che la cosa non finirà, anzi non farà che accentuarsi, in maniera sempre più lancinante, finché la morte non mi libererà».

Houellebecq non risparmia nessuno: al di là della provenienza geografica e di particolari usi e costumi sessuali o religiosi, noi europei siamo tutti vinti dall’attrazione animale che nega la possibilità di una cultura che non ci uccida per overdose di psicofarmaci, ma che ci tuteli con garbo e senza cattivo gusto dall’invasività del desiderio che, per sua natura angelicobestiale, l’uomo tende a subire e a fomentare; noi europei siamo tutti galline depresse in un claustrofobico allevamento a terra, destinate a nascere tra le carcasse delle nostre consimili, espletando la biologia di un futile intermezzo di vita chiocciante orrore: «Negli hangar, illuminati dall’alto da potenti lampade alogene, migliaia di galline tentavano di sopravvivere stipate fino a toccarsi, non c’erano gabbie, era un ‘allevamento a terra’, le bestiole erano spelacchiate, scheletriche, la loro epidermide era irritata e infestata dagli acari rossi, vivevano in mezzo ai cadaveri in decomposizione delle loro consimili, trascorrevano ogni istante della loro breve esistenza – al massimo un anno – a chiocciare di terrore».

Gli iterati e apparentemente futili riferimenti agli animali (lunghi paragrafi sono dedicati allo snocciolamento delle doti delle mucche normanne) e al cibo e alle bevande e, in generale, a tutto un bazar di oggettistica consumabile all’istante, come una vita incollata a pezzi su un mur Facebook (Florent fa esattamente così, incollando foto alla parete della stanza in cui alla fine si trasferisce: «Ero dunque al punto in cui ormai l’animale avanti con gli anni, logorato e sentendosi mortalmente colpito, si cerca una tana per andarvi a concludere la propria vita»), tutti questi riferimenti sono sintomo del fallimento degli europei che, nell’era digitale, assuefatti alla semplificazione iconica del desiderio, la cui estetica (spesso disarticolata, quasi sempre fake) si riduce a buonista pornografia prêt-à-porter o, nel migliore dei casi, a un’opaca pillola di piacere inorganico, hanno dismesso la capacità di cogliere, oltre il bianco di una bestialità anestetizzante, la bellezza dei dettagli luminosi.

Serotonina è un testo che parte da un punto – «una piccola compressa bianca, ovale, divisibile» – e gira intorno a quel punto (perché un vero punto non c’è), arcuandosi in digressioni semiserie su argomenti volutamente frivoli, che sono esse stesse metafora di ciò che si racconta, ossia una depressione scomposta, come una pizza gourmet destrutturata in parti che hanno forme diverse ma lo stesso non gusto, là dove il bianco uccide il quadro, riflette la luce di una scena corale altrimenti piena di dramma genuino, così come accade quando Florent incontra Camille per la prima volta, un’esplosione di colori accesi, prima che tutto proceda verso l’ineluttabile rovina: «L’intensità delle mie percezioni era decisamente aumentata già qualche minuto prima dell’arrivo del treno […] avevo notato tra i binari la presenza non solo di erba ma di piante con i fiori gialli […] tra l’altro avevo notato dietro la stazione degli strani parallelepipedi a strisce di salmone, ocra e marrone, che mi facevano pensare a un paesaggio futurista babilonese […] quando mi disse […] ‘Io sono Camille’ […] moltissime cose, a quel punto, erano già dette, determinate, e, come avrebbe detto mio padre nel suo gergo notarile, ‘agite’. Aveva uno sguardo di un bruno dolce […] c’era un tempo stupendo, con il cielo di un blu turchese, quasi irreale».

Michel Houellebecq è sempre stato cattivo: per sua stessa ammissione ha rinunciato alla psicologia della bontà, e con Serotonina, fine metaromanzo vuoto contemporaneo, denuncia con sarcasmo la «vittoria finale dell’attrazione animale» su «ogni idea di cultura europea», approdando a esiti più che nichilistici. Eppure – ecco l’incongruenza fulcro di Serotonina – nell’episodio in cui il suo alter ego non riesce a sparare, ci svela una speranza. Florent non riesce a uccidere il figlio quattrenne di Camille, pur avendolo circonfuso nel mirino strafatto di Captorix, perché il suo impulso bestiale è trafitto da una tazza di Nesquik, dallo schizzo colorato di un ricordo infantile che lo immedesima nel bambino sotto tiro; è un’identità che, se da un lato lo autorizza all’assassinio, dall’altro gli fa percepire la non bellezza e quindi la follia del gesto: «Nel momento in cui mi tornava in mente quel ricordo mi resi conto che capivo il figlio di Camille, che potevo mettermi al suo posto, e che quell’identità mi dava il diritto di ucciderlo […] se fossi stato un cervo, o un macaco del Brasile, la questione non si sarebbe neppure posta: la prima azione di un mammifero maschio, quando conquista una femmina, consiste nel distruggere ogni prole precedente, al fine di garantire la preminenza del proprio genotipo».

Il bianco andrebbe usato solo per i dettagli più luminosi, come λόγος σπερματικός da sorseggiare a piccole dosi, che non distrae, non rimbalza nei cupi piaceri non goduti del passato, ma fertilizza il presente, un presente degno di essere desiderato, perché ricco di idee per il futuro. Il desiderio, sembra sussurrarci fra le righe quel vecchio demone di Houellebecq, non deve essere necessariamente soppresso: può essere riscoperto come pars costruens per un allattamento meno squallido della nostra libido, come fonte di vita e arma da assalto, come bellezza non subita. Il desiderio è necessario per cambiare le cose, ed è quello che manca all’Europa: un desiderio fatto di contenuti, di sentimenti, di saporite Madeleine proustiane da sbocconcellare mentre ricordiamo e proteggiamo chi siamo, perché siamo orgogliosi della nostra identità, dei valori di libertà e uguaglianza pagati col sangue delle rivoluzioni, perché un dio meccanicista non ci serve, se crediamo nella possibilità di una società giusta, perché sì, siamo bestie tormentate dal fantasma delle Lolite masturbatorie che non potremmo mai avere, ma anche angeli in grado di desiderare colori accesi e cambiare la nostra storia.

L’Inesistente
Credits: GUCCI street commercial, Østergade 46, Copenhagen – April 2019