La Decomposizione di Narciso in Edgar Allan Poe

“Nunc duo concordes anima moriremur in una”.
Dixit et ad faciem rediit male sanus eandem
et lacrimis tirbavit aquas, obscuraque moto
reddita forma lacu est. Quam cum vidisset abire,
“quo refugis? Remane nec me, crudelis, amantem
desere!” clamavit “liceat, quod tangere non est,
adspicere et misero praebere alimenta furori!”

Ovidio, Metamorfosi, III 473-479

La linea umida tracciata a metà di una tela ci separa dal riflesso di ciò che più di ogni cosa amiamo, il riflesso di ciò da cui necessariamente non possiamo non essere ossessionati, perché in quel riflesso si riflette la nostra impossibilità di essere e avere oltre la purezza di una fonte illibata, l’eco sintetica dei nostri più intimi mostri, di tutti quei desideri che confessiamo piangendo e che piangendo distruggiamo; un grado di separazione sottilissimo assorbe il dramma del soggetto che, proteso a conoscere la sua realtà, si oscura scoprendo il negativo di sé, così come Narciso, sopraffatto dalla visione di una bellezza tanto vicina quanto inaccessibile, intorbida la superficie dell’acqua con lacrime furenti, decomponendosi nell’epifania di se stesso.
Se l’assurdità di non poter raggiungere quel paradiso increspato di buio, inevitabilmente corrotto perché eco del soggetto e sua proiezione antitetica, è l’insopportabile nunc stans che porta al suicidio per eccessivo amore di sé Narciso – fanciullo di cui, tra le altre ninfe, si era invaghita proprio Eco risonante – un analogo stato di terrore perenne spinge William Wilson a trafiggere in duello lo specchio da cui, tutta lorda di sangue, si staglia la sua immagine riflessa, dapprima scambiata per un sosia in carne e ossa.
Edgar Allan Poe racconta la storia di un giovane aristocratico di ‘indole imaginosa e facilmente eccitabile’, che scopre di somigliare incredibilmente a un suo omonimo compagno di scuola, un certo William Wilson, dalla cui presenza sempre più ingombrante rimane a tal punto ossessionato da considerare il rapporto tra i due una questione di vita o di morte; mors tua vita mea, che si risolve con un carnevalesco rovesciamento delle parti, per cui il protagonista, macchiatosi nel frattempo di un’innominabile sequela di atti impuri, cade nella trappola tesagli dalla sua antitesi mascherata, e uccide se stesso.
William Wilson è un piccolo capolavoro della letteratura gotica per le tinte cupe e allucinate con cui è reso il ritmo dell’incubo della scoperta dell’ologramma di un’alterità inesistente, che però assume potere assottigliandosi e tornando quasi a coincidere con l’originale, che costringe all’assassinio di sé. Infatti, più l’originale s’immerge nella corruzione, più l’ologramma (o presunto tale) gli assomiglia, tormentandolo con bisbigli riecheggianti dalla prima all’ultima pagina, finché il personaggio non si accorge, in un istantaneo tormento finale – ‘ho perso ogni virtù tutto d’un colpo, come si perde un mantello’ – che quei bisbigli formano un’unica voce (la sua): ‘in me tu esistevi e ora, nella mia morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso’.
Scegliendo di narrare in prima persona, Edgar Allan Poe mette in evidenza il soggetto, tutte le paure di un soggetto che impazzisce finendo per assassinare se stesso; è come se l’autore suggerisse una soluzione estetica estrema allo psicodramma narcisistico inteso come tensione identitaria paradossale: se non è possibile stabilire un’identità perfetta tra sé e l’oggetto desiderato in presenza di tale oggetto (o del suo riflesso), è lecito invertire la direzione dall’oggetto al soggetto, ammettendo l’assassinio di sé come forma di conoscenza, per cui il soggetto uccide il soggetto per diventare altro rispetto all’ossessione che ha di sé nel momento in cui cerca di conoscere la propria realtà come oggetto.
William Wilson (pubblicato nel 1839) è un testo cruciale non solo per lo stile, ma anche perché anticipa temi sviluppati da molta narrativa Ottocentesca e dalla stessa psicoanalisi; in particolare il tema del doppio (Il sosia di Dostoevskij è del 1846, Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde del 1886, Il riratto di Dorian Gray del 1890), e il tema dell’inconscio (Freud nasce nel 1856).
Dal racconto di Edgar Allan Poe emerge un paradosso alternativo al suicidio per amore di sé: non possiamo essere e avere se non nella corruzione di noi stessi, se non decomponendo Narciso, rompendo lo specchio in cui riconosciamo i frammenti di tutte le nostre eco, l’immagine della bellezza ora possibile perché consapevolmente uccisa, per eccesso di brama o di orrore; così ci liberiamo dal supplizio di Tantalo, dall’incubo stagnante in cui ci intrappola il desiderio dell’impossibile fine a se stesso: Narciso è perché piange guastando la propria immagine riflessa nello specchio d’acqua; William Wilson può raccontarsi perché ha infilzato la sua proiezione con la spada; Dorian Gray accoltella il ritratto, riappropriandosi di sé, solo dopo aver gettato in terra e frantumato col tallone lo specchio regalatogli da Lord Henry in cui contempla per la prima volta il sortilegio che lo induce alla rovina.

L’Inesistente
Credits: Caravaggio, Narciso, 1599