Stalagmiti

I due cavalli giacevano sul tavolo del suo monolocale: una stanza polivalente con angolo cottura, letto a scomparsa e sala operatoria preventivamente foderata di nylon per raccogliere il sangue delle bestie. Ripose in un angolo la maschera a gas, il fucile a pompa e lo zaino Eastpack edizione speciale Marvel, preso in prestito al figlioletto fanatico di supereroi, tutto merito di gravidi chiari di luna e inaspettati, che l’avevano costretta ad abbandonare la carriera da rispettabile veterinario clinico e trasferirsi in un bunker a fare l’assassina di frontiera, perché, tutto sommato, non era stato un cattivo affare, l’azienda copriva le spese della scuola elementare e alla mamma piaceva sparare, i sabati pomeriggio al poligono quando l’ex marito, con la scusa dello Shabbat, chiudeva baracca e burattini, montava in sella alla sua Mercedes in leasing vitalizio, e galoppava a tutto gas a pomiciare con l’amichetto nella casa in riva allo stagno, quella con le paperelle robot, colpo di genio del traditore, che decoravano l’acqua con ghirigori ispirati alla settima sinfonia di Beethoven, l’unica melodia che la loro memoria interna riusciva a sopportare, quasi fosse un avanzo d’amore raccattato dopo l’esplosione al fluoro acetato di sodio che aveva siglato quella specie di fine del mondo, il boccone sopravvissuto al terrorismo di un matrimonio smencio e semiammuffito nella stagnola, come il sandwich ripieno di Philadelphia Light speziato al peperone giallo che avrebbe dovuto essere il pranzo a sacco di lei, la quale, staccato un morso ancora edibile, e frugatasi nei capelli pagliericci alla ricerca di una cimice o di un pensiero dominante, si avvicinò masticando al computer per schedare gli equini ancora umidi di morte – inserisca sempre il codice alfanumerico marchiato a fuoco sotto lo zoccolo posteriore sinistro e, mi raccomando, lo riporti con pennarello indelebile sui sacchetti Cuki Gelopiù, in cui, prima di spedirceli via tubo, catalogherà gli organi vitali – erano istruzioni che avrebbe potuto eseguire una paperella robot, fatta eccezione per gli spari, e per Beethoven, che avrebbe sicuramente distratto i cavalli, impegnati a bullarsi della loro baldanza fisica in sterminate e soporifere paludi luccicanti di nulla, senza sapere di essere gli unici animali rimasti sulla faccia della terra, oltre all’uomo, ma di esseri umani, ormai, non se ne vedevano molti in giro, pensò afferrando una lattina dal frigobar, quindi si sedette cavalcioni sulla lavatrice che centrifugava gli ultimi panni e si concesse il CLOC di una bibita dietetica.

Un cavallo, quello pezzato, era rimasto a gambe aperte, supino sull’altro, tendente al fulvo, e riversava il capo all’indietro sciorinando di fronte alla sua assassina, in contemplativa pausa Sprite senza zuccheri aggiunti, canini più aguzzi del previsto, che dalla mascella superiore spuntavano come le stalagmiti di cera che modellava insieme al figlio affinché i supereroi avessero un nascondiglio con tutti i crismi e a portata di volo, ma adesso non lo facevano più, le babysitter incluse nei benefit aziendali si occupavano dei giochi necessari, documentavano le giornate con foto postate su Instagram di gusto non eccelso e le chiedevano semplicemente vestiti puliti da spedire via tubo. Quei vestiti, avrebbe desiderato tornassero indietro sporchi almeno una volta, per possedere una traccia olfattiva di quello che faceva il suo bambino, una macchia di sugo non troppo secco da leccare sul colletto di un grembiule, per intuire cosa avesse mangiato alla mensa, o un calzino chiazzato di terra sudata su cui baciare i tiri di una partitella a calcio, e invece, l’unico bucato ammollettato su una corda sospesa in diagonale sulle carcasse dei cavalli, era il suo. Sui cavalli pendevano i reggiseni di pizzo che l’ex marito le regalava senza badare a spese, perché la facevano più donna, diceva, e lei se li metteva un po’ per compassione, un po’ per averla vinta su altre questioni, come l’affidamento del figlio, che non voleva certo ereditasse la bottega di avanguardistici ninnoli giudaici del padre, passassero pure le paperelle robot con la settima di Beethoven incorporata, ma il senso estetico del figlio doveva essere salvato, magari versato in un sacchetto Cuki Gelopiù da sottrarre agli scienziati e custodire nel frigobar come un elisir da bere alla fine di tutte le diete.

Il cavallo dalle gambe aperte doveva essersi spezzato l’atlante, il collo si era allungato così tanto che pareva avesse ingoiato un boa alla rovescia, dalla parte della coda, sovrapponendo i denti e le mascelle in una disposizione ibrida che il figlio avrebbe certamente gradito, costringendola a replicarla insieme con la cera per la grotta rifugio di qualche supereroe speciale, mezzo boa e mezzo cavallo, magari, come il boacavallo pezzato, che nella sua posa vagamente porno sembrava rimproverarla dal basso, mentre appendeva i reggiseni di pizzo, mostrandole un guizzo di lingua in rigors mortis sulle froge moccicose, e lei, stupita da quella smorfia, mise la lattina leggermente in fallo e un rivoletto di fluido schiumoso le scivolò all’incrocio delle clavicole: e rivide la bava del cavallo trapassato da un colpo a bruciapelo in un punto anatomico abbastanza simile a quello in cui la bibita andava sfilacciandosi, non troppo vicino alla pancia, per non sciupare il cuore da imbustare; rivide il corpo di quel cavallo sussultare dopo lo sparo e l’occhio vastissimo catturarla per un momento come lo specchio nero del mondo che non c’era più, come l’estroflessione di tutti gli uccelli polverizzati nell’esplosione che l’aveva trasformata in goffa complice di paperelle robot, nonché cacciatrice di cavalli senza cuore: e immaginò di rimpicciolire, attraversare a piccoli passi quell’occhio desolato, chiedere scusa in silenzio, per poi tornare grande, estrarre a uno a uno i denti del boacavallo, riporli in un sacchetto, scriverci sopra STALAGMITI, e spedirlo via tubo alle babysitter eugeneticamente modificate.

L’Inesistente
Credits: Max Ernst, Forest and Sun, 1956, The Menil Collection