Remember to Get Off in Fredericia

Non sopportava più la strada né il buio del finestrino su cui la tempia batteva a ogni curva umiliando i suoi tentativi di addormentarsi, perché era già tempo di dimenticare, nonostante i capelli strofinati male dopo la doccia fatta insieme continuassero a riverberare la pressione di quelle mani, sotto l’acqua e prima dell’acqua, sul copripiumino a quadri, sulla cera arancione delle candele e il gin tonic rovesciato per sbaglio sulla maglietta numero dieci che usava per giocare a calcio, ridotta a un batuffolo di acrilico dai loro movimenti, a una crisalide da cui avrebbe potuto liberarsi una farfalla con le ali intessute di odori maschili allo sbaraglio, un insetto magico e assetato di discordia, messaggero delle loro frasi aliene e sconce, a volte romantiche, rattrappite dalla velocità di pezzi di corpo in playback che non smettevano di chiedere – posso usare questo? – aveva detto prendendo un asciugamano – è pulito – e di nuovo quelle mani stringevano da dietro il suo torso vaporoso allo specchio e lui le prendeva nelle sue e le avvicinava alle labbra e poi vedeva gli occhi castani riflessi e bruscamente si scostava con la scusa di asciugarsi il viso, ma le fibre bianche sapevano di lui, l’aveva sniffato troppo forte, le narici gli bruciavano, non riusciva a nascondersi, e pace se le gocce di pioggia gli impedivano di leggere il nome della stazione, doveva scendere subito da quell’autobus.

L’autobus lo scaricò in mezzo a una radura sfilacciata da un’insegna intermittente del McDonald’s, e immaginò fosse il luogo ideale per radunare branchi e venire a brucare, ma non c’erano altre tracce di civiltà e nemmeno animali, solo un ruscello sfracellato tra l’erba nera, dove cadde quando si girò a contemplare la grande M, perché qualcuno gli gettò addosso un bagaglio, forse il suo, e sentì il fango schizzargli in faccia e macchiargli i pantaloni, e tante grazie per aver scelto di viaggiare con noi, chissenefrega della lavanderia, affari tuoi, accontentati di essere sceso, anche se non ti va di mangiare l’erba, magari qualcosa potrebbe salvarsi, e infatti da quella prospettiva la grande M appariva così gialla e vasta e nutriente, aveva un’aureola di nebbia e olezzo di patatine fritte sulla testa che assopiva le scorie di terrore del pomeriggio appena trascorso, lo sfregio acceso in bella vista sul cuore e pronto all’uso delle risa di chi non avrebbe resistito a farlo sentire fuori posto, così afferrò un ciuffo d’erba, cosparso di letame o piacevolmente bagnato di niente, e lasciò che i polpastrelli scorressero su di lui.

Ascoltò le portiere dell’autobus chiudersi e il motore ripartire, e nella tasca posteriore sinistra, spiaccicate durante il viaggio tutto curve per sommo dolore delle chiappe quasi glabre e tendenti allo snello, le salviette multiuso subirono un rigonfiamento spontaneo nei pantaloni, come un fiore sottovuoto che improvvisamente sboccia per via di un foro nella plastica e si protende nello spazio, così lui le tirò fuori dalla tasca alzandosi da terra, e sgocciolando dappertutto decise che le avrebbe usate per nettarsi almeno il viso dal fango, benché ormai più che a salviette assomigliassero a fogli di carta scarabocchiati con un pennino leggermente imbevuto nei residui di cenere rimasti sul fondo di una pentola, perché lui non fumava, ma il suo coinquilino sì, e quando lavava i piatti si accendeva una sigaretta, si versava una birra tiepida nella tazza dove prima aveva bevuto il caffè sciacquandola in un nanosecondo, e riceveva una telefonata da qualche fidanzatina e puntualmente non lavava i piatti mentre lui, che lavorava al bar e avrebbe lavato altri piatti la sera stessa, usciva invidiando quella telefonata normale, quelle moine eterosessuali che non solo non creavano problemi, ma giustificano l’abbandono delle stoviglie sporche nel lavello.

Entrò nel McDonald’s sperando di essere abbastanza libero dal fango per poter ordinare una porzione di patatine fritte senza che emergessero dubbi morali sul suo nuovo vizio di accarezzare fili d’erba senza curarsi della possibile presenza di letame su di essi, un po’ come i due fratellini biondi della famiglia seduta al tavolo in fondo, gli unici clienti oltre a lui in quel luogo di cui non aveva decifrato il nome, costruivano case estraendo cubetti di ghiaccio dai bicchieroni di Coca-Cola inclusi nel pasto felice ignorando il loro prossimo scioglimento, perché era bello costruire qualcosa che presto si sarebbe autodistrutto senza lasciare tracce, lui però temeva quelle tracce, le sentiva e le vedeva ovunque, e non voleva che si spargesse la voce, non voleva che i sacrifici che l’avevano condotto fin lì si volatilizzassero come piccole case di ghiaccio spennellate di edulcorante, ma la cameriera dietro al bancone non gli ispirava fiducia, forse per via del ciuccio ancora nella confezione che esaminava in controluce, perché magari si era accorta solo adesso di non aver scelto il colore giusto, distratta al supermercato dal quasi appuntamento preso su Tinder, e il suo bimbo non avrebbe certo gradito il rosa, per non parlare di quelle frecce tribali tatuate sulla falangetta dell’anulare destro o degli occhialini tondi da monellina nerd di frontiera, che infischiandosene di ogni eventuale daltonismo, non esita a flirtare con gli estranei – come? – fece per riporre il ciuccio in un cassetto sotto la cassa, ma si udì un tonfo di oggetto che cade sul pavimento, quindi si riavviò la frangetta riccioluta e guardò il cliente da servire, la pelle luccicante di liquami igienizzanti, le labbra usurate e i capelli strofinati male – patatine small, grazie – lei sorrise e posò lo sguardo sugli occhi castani che scrutavano il menu delle offerte speciali tentando di associare le immagini a ciò che era scritto vicino, e in quegli occhi, se si fosse sforzata di capirne il colore, attività per cui comprando il ciuccio rosa si era però già dimostrata negata, avrebbe visto le aquile impagliate nello studio del padre quel giorno in cui, pur di non confessargli la verità, lui gli aveva comunicato che sarebbe andato a studiare all’estero, marketing o qualcosa del genere, sì, avrebbe lavorato, magari part-time in un Caffè Nero, pensavo ti piacesse il latte macchiato, certo che mi piace, papà, è il brand che si chiama così, va bene però scrivimi ogni volta che hai mangiato – mi dispiace, le patatine small sono terminate, posso darti delle patatine extralarge, se vuoi – lo sguardo della cameriera si era spostato un momento sul computer, aveva digitato qualcosa, quindi era tornato su di lui, fissandosi sulla bandierina bianca rossa e blu del maglioncino Tommy Hilfiger grigio immacolato oltre il giaccone incrostato di fango, e lui sentì quelle mani tornare a stringerlo da dietro, sfregargli il capezzolo sotto la bandierina e contargli le ossa del costato, e vide la farfalla numero dieci polverizzata sull’asciugamano pulito – posso usare questo? – un gruzzolo di gettoni tintinnò nel palmo della sua mano, alcuni erano dorati, mentre altri, forse meno preziosi, avevano un buco in mezzo e dei cuoricini in rilievo, non era sicuro che bastassero, ma la cameriera, credendo di aver capito il colore dei suoi occhi, mosse le frecce tribali verso di lui e cominciò a separare le monete.

L’Inesistente
Credits: Salvador Dalí, Feather Equilibrium (Interatomic Balance of a Swans Feather), 1947, private collection