Ian McEwan – Bambini nel tempo

Sweet child in time, you’ll see the line
Line that’s drawn between good and bad
See the blind man shooting at the world
Bullets flying, taking toll
If you’ve been bad – Oh Lord I bet you have
And you’ve not been hit by flying lead
You’d better close your eyes, bow your head
Wait for the ricochet.
Deep Purple, Child in Time, 1987

Al supermercato siamo spinti a scegliere la cassa meno affollata, dove meno vite ci sfilano davanti, per salvare il nostro tempo. Perché il tempo è prezioso e altre cose del genere. È la scelta più saggia. Vogliamo tornare alle nostre vite, nelle nostre case, perché solo fuori dal supermercato la spesa assume un significato reale. Ciò che abbiamo raccolto può essere toccato e consumato al riparo di mura amiche o, semplicemente, nella dimensione temporale che siamo riusciti a salvare. Certo, ma la nostra esistenza può cambiare ovunque, il tempo può bloccarsi ovunque. Anche in un supermercato. Ci voltiamo, e il bambino che giocava alle nostre spalle troneggiando sul carrello, non c’è più. Il nostro bambino è sparito. Quel mantello intessuto con le nostre vene ci viene improvvisamente strappato via, e ci ritroviamo spogli, dissanguati, con mani vuote che non sanno cosa afferrare; i nostri occhi cominciano a pentirsi di non aver notato i particolari di un certo scaffale, di non aver letto bene le etichette, di non aver prestato attenzione alle vite che ci sfilavano davanti.
Nei nostri atti più banali e ripetuti può aprirsi una piccola voragine, e in quella piccola voragine un abisso in cui le lancette si muovono al contrario rincorrendo ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. E il tempo, prima oggetto prezioso da conservare, si traduce in soggetto dominante da inseguire nella speranza assurda di poterlo raggiungere, afferrare, modificare. Noi stessi ci trasformiamo nell’intimità della corsa. Adesso perdiamo saggezza e notiamo dettagli che abbiamo vissuto, perso, inventato; ci riempiamo le tasche di caramelle che non possiamo più mangiare. Siamo bambini nel tempo.
Il rapimento di una bambina in un supermercato è l’espediente narrativo scelto da  Ian McEwan per dare avvio al suo romanzo. È un evento concreto che però può essere letto come un’originale metafora sul grande enigma dell’infanzia. Infanzia come fuga dal tempo. Infanzia come assenza di tempo. Infanzia come desiderio sessuale della non responsabilità. Infanzia, soprattutto, come drammatica sottrazione di possibilità ontologica.
Per McEwan non è il mondo, il divenire un individuo adulto, a privarci del nostro bambino, della nostra possibilità di non essere, di non diventare nulla, di non conoscere (o pretendere di conoscere) il bene e il male, galleggiando su una zattera
di eterni piccoli piaceri e dispiaceri dal significato squisitamente sfuggente e immortale: è la stessa infanzia, l’impulso incontenibile ad essere bambini nel tempo, che risucchia, rapisce tutto ciò che nel presente sentiamo di non essere, di non aver vissuto, di aver  perso, inventato. Stephen, il protagonista, è diventato scrittore. È entrato nel mondo scrivendo (suo malgrado) Lemonade, un bestseller per bambini. O meglio, un libro giudicato adatto ai bambini da parte di un bizzarro uomo d’affari, Charles, direttore di una delle più prestigiose case editrici londinesi. Partecipa a un noiosissimo ‘progetto per l’educazione dell’infanzia’ sostenuto dallo stesso Charles, che nel frattempo si è buttato in politica riscuotendo notevole successo. Situazione paradossale che serve all’autore per smascherare con amara ironia l’educazione del bambino in tutta la sua insensatezza.
Non è il modo in cui si viene educati ad essere determinante, così come non può essere determinato a priori un modo giusto o sbagliato con il quale essere educati. L’adulto, in ogni caso, dovrà fare i conti con la sparizione del proprio bambino, dovrà assumersi la responsabilità nei confronti dei propri desideri in rapporto alla certezza della propria mortalità, dovrà accettare la condanna organica ad essere bambino nel tempo.
Stephen, alla fine, ritrova un inspiegabile brandello di speranza. Scopre che sua moglie è di nuovo incinta, e insieme decidono di andare avanti replicando l’illusione di poter essere bambini al di là del tempo. Charles, invece, uomo di mondo sempre sul pezzo, apparentemente inscalfibile dal punto di vista emotivo, sicuro di sé perché padrone del tempo, in realtà nasconde una depressione divorante: pulsioni proprie dell’infanzia, come l’obbligo all’obbedienza e lo strano sentimento di libertà che ne consegue, lo richiamano come un sadico canto di sirena; cerca di tapparsi le orecchie, ma non ci riesce; cerca di sfogare la disperazione pagando prostitute per farsi sculacciare; cerca di esorcizzare il proprio dramma esistenziale, l’irrimediabile perdita del proprio bambino, con il ‘progetto per l’educazione dell’infanzia’ e scrivendo lui stesso un manuale sul tema. Ma non basta. Si pone la necessità di un mutamento radicale, e Charles opta per un autoindotto processo di regressione. Si ritira dalla politica e comincia una nuova vita non poco inquietante in campagna. Alla ricerca della felicità, ora tenta di vivere concretamente ciò che non ha mai vissuto in passato, o che forse ha soltanto perso o inventato: esplora i boschi con la sua fionda, costruisce una casa sull’albero, fabbrica una limonata dal sapore impossibile. Poi, un giorno, ci rimane secco: si spoglia, appoggia la schiena al tronco, e si lascia morire sotto la neve, sotto il cortocircuito dei propri giocattoli.

L’Inesistente