Nicolai Lilin – Educazione siberiana

Quando uscirono spuntava l’alba; gran folla già s’era adunata; alle finestre molti
stavano fumando, o giocando a carte per passare il tempo, e giù la gente
litigava, scherzava, spingeva.
Tutto era vita gaia, fuorché un cupo gruppo
d’oggetti nel centro: il palco nero, la forca, la corda, tutto l’orrendo apparato di morte.
Charles Dickens, Oliver Twist, 1837

Dal cielo della Transnistria piovono lame. Coltelli di varia fattura squarciano un cielo quasi sempre grigio con rare sfumature bianche e vanno a depositarsi magneticamente sugli angoli rossi delle case di Fiume basso. Angoli sacri, pieni di icone fedeli alla religione ortodossa, gli unici luoghi in cui le armi trovano riposo. E da quegli angoli intrisi di saggezza e violenza germoglia l’educazione siberiana.
L’opera di Lilin è un romanzo di formazione costruito su episodi appiccicati tra loro con una logica che ogni tanto sfugge, con uno stile poco raffinato, con scene talvolta stucchevoli per la loro ripetitiva analogia col sangue e la sopraffazione. Ma non importa: il messaggio arriva al lettore in tutta la sua fisica chiarezza; un taglio improvviso e profondo al centro dello stomaco; le budella escono lentamente come una meditazione, e il messaggio assume le sembianze di un paradosso da decifrare, una domanda aperta sul senso della giustizia, sulla possibilità di stabilire una scala assiologica dove una verità scavalca l’altra perché più vera della precedente. Si può essere dei ‘criminali onesti’?
Nicolai riceve la sua prima ‘picca’ quando è ancora un ragazzino col moccio al naso. Sa bene che le armi non posso essere usate in casa. Sa bene che possono essere usate solo per cacciare e procurare del cibo alla comunità, per tagliare i tendini d’Achille a chi ha commesso un torto inconfutabile, per sgozzare uomini in uniforme (incarnazione di un ordine maligno che deve essere solo disprezzato e, possibilmente, estirpato alla radice). Le regole, insomma, sono rigide. Nessuno possiede niente perché tutto è di tutti, e ciascuno ha il suo ruolo di criminale onesto: c’è chi ruba sui treni, c’è chi si dedica alla truffa, c’è chi massacra poliziotti e così via.
Il tatuatore è lo scriba di questa società pseudocomunista: scrive le storie della gente sulla loro pelle. È un compito fondamentale perché unicamente attraverso questi segni incisi nella carne un siberiano può essere riconosciuto come tale, come appartenente alla casta dei Seme nero piuttosto che a quella dei Seme grigio, a una famiglia piuttosto che a un’altra. E se in Siberia non fai parte di una famiglia, non solo non puoi ricevere un’educazione, ma sei proprio tagliato fuori da ogni eventuale affare criminale, sei un reietto, sei un quaderno con le pagine vuote.
Con la sua autobiografia (sicuramente edulcorata ma non è questo il punto), Lilin pone al centro della narrazione il tema della famiglia. Tutto parte dalla famiglia: l’educazione, la sottomissione a definiti moduli comportamentali, a gerarchie, a diritti, doveri, perfino a sentimenti. La famiglia di Lilin non è costituita da un gruppo di persone legate biologicamente che condivide lo stesso tetto: questa è una vecchia invenzione dei Padri della Chiesa per contenere gli impulsi sessuali delle prime comunità cristiane nel recinto del matrimonio (non c’è un singolo passo della Bibbia che tratti esplicitamente di un nucleo familiare biologicamente determinato, anzi, se ci pensate, la vicenda della Madonna fecondata dallo Spirito Santo può essere letta come prefigurazione della fecondazione artificiale, oggi possibile e osteggiata dagli stessi uomini di Chiesa).
La famiglia di Lilin è incredibilmente moderna. Non è un’utopia, un esperimento antropologico che fa acqua da tutte le parti. È una proposta futuribile: affonda le sue origini nel comunismo sovietico, ma si adorna di un’energia primordiale e di un classicismo replicabile nel tempo e nello spazio. Un sapore antico che profuma di nuovo. La famiglia di Lilin ha una forte impronta religiosa ma è essenzialmente simbolo, storia e appartenenza: è la storia che si può leggere sulla pelle, è l’appartenenza ad una serie di connessioni simboliche che rimandano ad uno stesso regno, senza re e senza territorio, che poggia su colonne rastremate dalla tradizione, un passato condiviso da un certo numero di persone, un passato sempre attuale in ogni angolo del mondo: in ogni angolo del mondo può esserci un siberiano di Seme nero o di Seme grigio, un criminale onesto.
Il tema della famiglia si fonde a quello dell’onestà. I criminali di Fiume basso agiscono onestamente anche quando schizzano la neve di rosso, anche quando il grigio delle loro lame mozza un braccio, una gamba, fa saltare gli occhi dalle orbite, perché la violenza non è mai fine a se stessa per i siberiani: la violenza costituisce la difesa primaria di un codice d’onore, che è alla base della famiglia, e la famiglia è il dono da lucidare nell’ombra, l’intimo significato della vita da preservare e difendere ad ogni costo. Così, però, si rischia di finire (pur onestamente) in carcere.
Il capitolo dedicato al carcere minorile è la parte del libro scritta con maggiore accuratezza. Proprio quella che il delicato Gabriele Salvatores ha sfibrato, se non tranciato di netto, nella sua opinabile versione cinematografica. Perché, sì, a Fiume basso ci sono i colombi.
I colombi sono come tatuaggi volanti per i criminali, simboli che volteggiano, disegnando nell’aria traiettorie di libertà: i più anziani li custodiscono in gabbie dall’aura sacra e misteriosa e ogni tanto insegnano ai giovani aspiranti onesti criminali come gettarli verso il cielo senza il rischio che cadano a terra sfracellandosi. È un’immagine molto poetica, resa bene fotograficamente (grazie anche a un John Malkovich in gran spolvero), ma il regista dimentica che se i colombi vanno verso il cielo, dal cielo piovono lame, e il film snatura completamente il messaggio del romanzo di Lilin, traducendosi in una sciatta operazione commerciale, che mescola le scene e i personaggi nel peggiore dei modi, annullando quasi completamente il senso della violenza nell’educazione siberiana, nel romanzo di formazione di Nicolai, criminale onesto.
Il carcere minorile di Salvatores sembra il rifugio dei bambini sfollati dell’Isola che non c’è: qualche scarafaggio fa capolino, ma nel complesso domina un’atmosfera rosea, fabiesca, colpevolmente irreale. Manca solo Wendy con il suo vestitino ricamato e la citazione sarebbe perfetta. Il carcere minorile di Lilin, invece, è un’enorme stanza buia, un vecchio magazzino affollato da anime dimenticate da tutto e da tutti. Un fioco bagliore faticosamente fluisce da minuscole grate lottando con un vapore indistinto, densissimo, pestilenziale, formato dal sudore di corpi nudi vivi e morti, da urla e pianti incessanti, da ginocchiate e gomitate che spaccano gomiti e ginocchia, da sodomie e umiliazioni collettive. Lo spazio è quasi interamente coperto da brande sovrapposte; è difficile respirare; è difficile nutrirsi, lavarsi, sopravvivere. Alcuni ottengono piccoli favori dalle guardie in cambio di prestazioni sessuali: matite colorate, una mela, una rivista. Un giorno arriva un pacco: i bambini georgiani si sono alleati con i carcerati di Fiume basso e condividono con loro un boccone di formaggio. Formaggio fresco, fatto in famiglia. Un boccone di libertà pura, conquistata senza vendersi. Un boccone del mondo di fuori. Un mondo che ancora sembra esistere.
L’esperienza del carcere è inscindibile da quella della libertà. I colombi volteggiano sempre in coppia. È un simbolo. È l’unione metafisica del maschile e del femminile (la femmina, senza il maschio, non potrebbe volare). È armonia della natura: onesta, senza fronzoli, molto vicina alla verità, forse alla verità più grande di tutte le altre. Tuttavia questa purezza, questa onestà, non può sussistere senza una pioggia di lame.
Nicolai ha salutato la Transnistria, è emigrato in Italia, ha lasciato la neve per il Sole e si è messo a fare soldi scrivendo. Oliver Twist, orfanello lercio e pallido, è diventato, dopo una serie di peripezie, un borghese paffutello e azzimato. Altri tempi, altri libri, quello che volete. Ma gli arnesi della morte sono sempre lì. Per quanto ci si possa formare, per quanto possa ampliarsi la consapevolezza di noi stessi e delle cose che ci circondano, giustizia e ingiustizia non si separano; il bene e il male non si separano, non possono separarsi. Questa, forse, è la verità più vera di tutte le altre.

L’Inestistente