Stelle cadenti

Cadde un cavolfiore dalla busta della spesa, quella della ragazza col bastone nero in attesa, forse la frenata dell’autobus era stata brusca, forse lei avrebbe dovuto mettere quella busta dentro un’altra busta, proteggere meglio le sue cose, invece si era fidata di quelle braccia scheletriche, che, come la sua gamba, avrebbero potuto spezzarsi da un momento all’altro, giacché lei, alta un metro e ottantatré, non pesava neanche quarantacinque chili, e le avevano detto di stare attenta, le avevano detto di non muoversi troppo, ma lei figuriamoci, per tutta risposta si era spenta una sigaretta sul dorso della mano sinistra; cadde un secondo cavolfiore mentre le porte in fondo si aprivano, e la ferita doveva ancora rimarginarsi del tutto, assomigliava al cratere di una meteora venuta a illuminare il suo mondo senza stelle, a una meteora che, dopo aver bruciato nell’atmosfera, era precipitata sulla sua mano fondendosi ai tessuti, respirando con loro come per non farle dimenticare che la luce esisteva; cadde un terzo cavolfiore, rotolò nel corridoio dell’autobus, lei imprecò e pianse e rise e chiese aiuto, urlò cortesemente di aspettare, perché le si era sfasciata la busta della spesa e doveva scendere ed era – un’invalida di guerra! – lo disse per attirare l’attenzione, le piaceva distorcere la verità, le piaceva fingere che le cose fossero più grandi o più piccole o semplicemente meno reali, ma nessuno sembrava curarsi di lei, nessuno volle incrociare il suo sguardo di cervi sacri in fuga e foreste gialle smembrate, le cuffie saldamente agganciate alle orecchie come le zampe di un parassita amico, lei sciorinò il bastone nero – sono un’invalida di guerra, aiutatemi!

I tre cavolfiori rimbalzavano nel corridoio dell’autobus, e il corridoio sembrava allungarsi per dare ai cavolfiori più spazio per allontanarsi da lei, che, soffiato via dall’occhio destro un ciuffo tinto con l’henné, cercava di raccattare i saponi alla lavanda e le stecche di Pall Mall e tutti quei pacchetti di Air Action Vigorsol che masticava di continuo per mascherare il suo alito da angelo della morte con gli organi interni ormai più piccini di canarini stritolati sotto un tir, ma le porte stavano per chiudersi e nessuno aveva mosso un muscolo, se non per eliminarla su Tinder – ciccioni segaioli bastardi!– sbottò lei a denti stretti bloccando le porte col bastone nero e, facendo leva con tutte le forze, balzò sull’asfalto ghiacciato, scivolando pancia all’aria, mentre l’autobus già spariva nella sera.

Aperto il loft con un energico colpo di ciò che restava del suo deltoide, appoggiò il bastone nero alla parete, rovesciò sul divano la merce che era riuscita a salvare e quindi se stessa, accendendo la TV e una sigaretta – Belzebù, quante volte te lo devo dire di non fare la pipì sui plastici della mamma?!– stava preparando l’esame di progettazione e voleva diventare architetto,almeno, lo psichiatra le aveva detto che quello era un buon progetto, un progetto funzionale, anche se il successo del padre, archistar di azzardati ponti di tendenza, per la figlia tanto assente quanto adombrante, faceva apparire raccomandato ogni chiaroscuro degno di essere lodato, anche se la massiccia dose di Zoloft prescrittale non la faceva concentrare, le dava solo l’illusione di fare, svaporando il suo essere in manie compulsive, l’illusione che la lettiera del gatto non puzzasse così tanto, ma tanto quello non era il vero plastico della mamma, che conoscendo le ripicche preferite del suo micio,ne faceva almeno tre, di cui uno finto, e poi sceglieva lanciando una moneta a quale degli altri due attaccare il tondino rosso.

Scrisse su un Post-it TONDINI ROSSI e l’attaccò in faccia a Belzebù, che saltò davanti alla TV, arruffandosi in un miagolio annoiato, lei sorrise ed espirò il fumo, divertita dalla lotta ingaggiata dal felino con un pezzo di carta adesivo davanti allo schermo di esseri umani blateranti, ma poi si ricordò dei tre cavolfiori rotolanti nel corridoio dell’autobus e di quei maschi ignoranti che l’avevano eliminata su Tinder e s’incupì, non sapeva se per i cavolfiori o per gli uomini, ma s’incupì, e prese una pasticca extra di Zoloft, e si ricordò che tra non molto avrebbe dovuto prepararsi per andare a lavoro, o meglio, al mercatino di Natale a fare volontariato come tutti gli anni, progetto funzionale secondo lo psichiatra, ma quella sera proprio non aveva voglia, non aveva nessuna voglia di spaccarsi un altro piatto tibiale trasportando alberi finti avviluppati nella plastica o infarcendo le bancarelle con obesi leccalecca psichedelici e orsacchiotti vestiti a festa per una tazza di vin brulé e una pacca su ciò che restava del suo deltoide, quindi scrisse scusa raga stase mal di tibia + faccina triste sul gruppo WhatsApp, spense la sigaretta e andò a farsi una doccia, lasciando che il match Belzebù vs Post-it si risolvesse da sé.

Massaggiato il cuoio capelluto con lo shampoo salvahenné all’aceto di mora ultradolce Garnier, chiuse gli occhi e finse di avere i polsi legati mentre fiotti d’acqua non tiepida sferzavano le cicatrici disegnate in ospedale con graffette e penne Bic, quelle che lei chiamava mappe stellari nel suo diario, quello in cui si era inventata la vita di un’altra ragazza, una sua versione beta appassionata di fantascienza, il diario col tondino rosso che faceva leggere solo all’istruttrice di Pilates alcolista con cui aveva instaurato una relazione non platonica, perché a lei poteva mostrarsi infelice della propria autodistruzione, perché lei, in quella farsa, era un ponte verso l’iperuranio, e se la palestra era vuota facevano stretching fino all’alba bevendo vino direttamente dalla bottiglia, oppure spegnevano le luci e si inseguivano tra le macchine senza niente addosso, e quando si lasciava prendere, lei le baciava le cicatrici e insieme attraversavano l’atmosfera, bruciavano e cadevano nel buio come detriti di idee extraterrestri.

Liberatasi dai lacci immaginari con cui prima si era legata le mani dietro la schiena, uscì dalla doccia e prese il telefono tutta gocciolante, selezionò una BIG capricciosa + Coca-Cola omaggio, premette il tasto verde per finalizzare l’acquisto e tac, ventuno minuti e la pizza sarebbe arrivata, non mangiava qualcosa di solido e che fosse diverso dal frullato di cavolfiore e Multicentrum da quasi tre anni, ma improvvisamente aveva fame, una fame incontenibile, andò in camera da letto per asciugarsi nell’accappatoio bianco a nido d’ape, e di fronte allo specchio, rannicchiata su una seggiola di paglia, percorse con la punta della lingua alcuni tratti di mappe stellari sulla gamba dalla tibia ancora intatta, ma suonarono al citofono del loft e dovette interrompere il rito.

Nel videocitofono un ragazzo col naso arrossato dal freddo, il casco della bicicletta a nolo ancora in testa e un enorme cubo verde con sopra scritto DELIVEROO in braccio, fissava la telecamera, lei alzò il ricevitore e gli chiese chi fosse, lui le rispose – secondo lei? – e lei disse che non voleva la pizza, che era stata una follia, che non era in grado di ingerire cibo solido, il solo pensiero la faceva stare male – mi dispiace, vuole che chiami un’ambulanza? – lei scoppiò a ridere e con un movimento meccanico strinse il bastone nero con la mano chiazzata di meteora – senta, qui mi sto congelando e non ho nessuna voglia di essere preso in giro, specialmente dopo l’attentato, roba da matti, apra questa porta e mi dia i soldi, se non ha fame la pizza può sempre buttarla via! – lei smise di ridere – quale attentato? – lui batté il piede per terra e sbuffando alzò gli occhi al cielo – al mercatino di Natale un terrorista ha fatto esplodere la stella di Betlemme, parecchi morti – lei si girò verso la TV e vide il suo micio, Belzebù giocava con il Post-it, una pallina di graffi davanti allo schermo in fiamme. 

L’Inesistente
Credits: Egon Schiele, Freundin, Rosa-Blau, 1913