News from Hell

Il pupazzo bruciava nel vialetto delle biciclette accatastate che conduceva alla corte interna, e benché fosse usanza locale bruciare pupazzi fatti con fogli di giornale appallottolati agli angoli delle strade – Remember, Remember the Fifth of November! – l’avevano preso a sassate staccandogli la testa, forse perché non erano convinti della sua morte, o perché era stato assemblato in una zona a loro dire non idonea, e comunque non da loro, e soprattutto non alla loro festa, e i ragazzi del 54, l’appartamento con vista materassi, reclamavano il comune diritto di distruggere pupazzi nella corte su cui si affacciavano i palazzi, se così si potevano chiamare quelle fabbriche abbandonate o non finite e fatte a pezzi dalle intemperie e abusivamente occupate da studenti, che ogni giorno scoprivano aggeggi smontabili da portare a casa, scavando nella piramide di materassi maciullati su cui non smettevano di accumularsi detriti di vite sconosciute, facendola crescere in altezza al centro della scena tanto contesa.

Ucciso il pupazzo, s’inerpicarono al 54, e una ragazza biondissima appena giunta per il weekend, che mescolava ragù alla bolognese in un pentolone tutto ammaccato, rise alla loro vista – hey boys, any news from hell?! – e il fidanzato la baciò strappandole il cucchiaino di mano, perché era molto geloso della sua cucina – sì, piccina, abbiamo trovato questa, guarda che roba! – e tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni bucherellati una statuetta di rame a forma di testa di scimmia, concava e schiacciata, che mostrò alla fidanzata e al resto della ciurma, prima di schiccherarci la cenere della sigaretta che aveva acceso salendo le scale, mentre lei, attenta a non precipitare oltre la parete senza parete che solo una sedia scorticata e un lenzuolo rosso separavano dal vuoto, si sedette proprio su quella sedia, ma una fluttuante scheggia di paglia le smagliò il collant sotto la natica destra, così lei la coprì accavallando le gambe, e fingendo di controllare le doppie punte osservò di sottecchi il fidanzato che mescolava al suo posto e pensò ai pettegolezzi su di lui a traccheggiare con la tipa che lavava gli specchi al ristorante dove lavorava fino a tardi e ai ritardi Ryanair e alle ore di volo macinate per lui, e a quanto fosse felice di rivederlo, nonostante tutto, a quanto avrebbe voluto essere quel cucchiaino e farsi girare e farsi leccare da lui – non vi schifate, vero?! – che aveva tirato fuori la punta della lingua facendola rapidamente scorrere sul retro del cucchiaino per controllare che lei non ci avesse messo troppo sale – un po’ sì, ma sei tu lo chef, e spicciati che abbiamo fame! – esclamò un ragazzo riccioluto sprofondato con un libro di Ballard in una poltrona scarnificata, e lei vide il volto del fidanzato oscurarsi e capì che c’era troppo sale, e capì anche d’averlo fatto apposta, perché voleva che la guardasse, cosa che fece mentre apriva il pomello dell’acqua calda, scrutandola con la bocca sporca di rosso, la camicia sudicia da giorni e gli occhi da cerbiatto cattivo che promettevano una notte di selvatiche letizie, quindi scosse la testa, riempì una tazzina di caffè di acqua bollente e la gettò nel pentolone – ma cerchiamo di rimediare un mestolo la prossima volta, okay?! – le posate infatti scarseggiavano, la gente tendeva a tenersele, a non buttarle sulla piramide, perché servivano innanzitutto nell’al di qua, perciò nei mesi lui si era intascato tonnellate di cucchiaini al ristorante, perché davano meno nell’occhio e nessuno degli altri ragazzi osava insistere più di tanto, perché dopotutto mandava avanti lui la baracca, era stata sua l’idea di segmentare lo spazio interno con pareti di cartongesso, sottilissime, è vero, non arrivavano nemmeno al soffitto ma, almeno, faceva meno effetto camerata da boy scout, e di questo e altro non potevano non essergli riconoscenti – sapete che il cervello di scimmia si mangia quando la scimmia è ancora viva? – disse quello che chiamavano sciamano, perché era un artista del bong e perché, con i materiali forniti dalla piramide, era riuscito a costruirsi una specie di tenda futurista in cui ospitare fanciulle con una privacy accettabile, perché la sua camera non era la peggiore, quella di mezzo toccata in sorte al ragazzo riccioluto, ma comunicava pur sempre con il salotto – il cranio della scimmia viva sporge da un foro al centro del tavolo, viene scoperchiato con un colpo di machete e mangiato con i cucchiaini – lei non aveva smesso di osservare il fidanzato, che assaggiò il ragù l’ultima volta – tuck in, before it gets cold! – bofonchiò con il cucchiaino ancora in bocca rivolgendole un occhiolino forse complice e, scuotendo la testa spiaccicata della scimmia di rame, spense il mozzicone rimasto lì a bruciare.

Slappate le ciotole, i ragazzi si stavano passando il bong post cena preparato dallo sciamano, un miscuglio erbaceo piuttosto forte, mentre lo chef, un po’ per abitudine, un po’ perché non c’erano altre sedie, rigovernava – facciamo un gioco – propose il riccioluto riemergendo dalla poltrona scarnificata – immaginate di essere all’inferno e un cavallo bianco vi corre incontro e… – lei, toltasi i tacchi, era salita sulla sedia di paglia, in bilico tra l’appartamento 54 e il vuoto e, attraverso il lenzuolo rosso smosso dal vento, fissava un pupazzo bruciare in cima alla piramide giù nella corte, impalato nell’asta di una bicicletta con le ruote che giravano in folle – baby, what the hell are you doing?! – lui le cinse la vita da dietro con le braccia insaponate, la sedia cadde nel vuoto, loro sul pavimento, e mentre lasciò che lei scoppiasse a piangere sul suo petto, le impresse sulla guancia una macchia di ragù – e il cavallo bianco scalcia vicino a un ulivo e – il riccioluto si accorse che lo chef si guardava attorno con insolita rabbia: ragazzi, adesso torniamo fuori e uccidiamo meglio quel pupazzo, okay?!

L’Inesistente
Credits: Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911