This Will Be Our Year

Sgattaiolato nel back office per una meritata combo caffeina + nicotina alla fine del turno di notte, stavo per portarmi alle labbra la tazzina, quando su uno degli schermi in bianco e nero vidi il terrore dilagare sul volto della mia collega che, ruotata la testa di 180°, gettò uno sguardo da piccola fiammiferaia alla telecamera puntata sulla reception, nella speranza che non facessi finta di non vederla tutta sola, poverina, che ricordassi l’aborto della sua bambina, che notassi lo tsunami di clienti irrotto nella reception di prima mattina e, nonostante la mia moralità da micione punk molliccio e beone fosse ormai dubbia, accorressi in suo aiuto, per smaltire la mole di tutti quegli esseri umani assetati di check-in e bonus di benvenuto, e tostarli e macinarli e shakerarli nei fascicoli virtuali, perciò riposi la tazzina sul piattino, mi grattai le guance barbute, strizzai gli occhi sforzandomi di non lacrimare sangue per il bruciore e, soprattutto, di non smadonnare, quindi varcai la soglia del front office appena in tempo per afferrare una risma di passaporti sporti con impazienza oltre il bancone e lasciare che dalla mia ugola eruttasse un flebile welcome.

Agli occhi di molte donne gli uomini sono tutti dei potenziali violentatori e porci che – farebbero meglio a tenersi il coso nei pantaloni – ma pochi parlano della porcaggine delle donne e della violenza che esse esercitano sugli uomini, forse perché è una violenza più sottile, è un’arte più concettuale, però vi assicuro che fa male, e quasi sempre resta impunita o comunque assai poco chiacchierata, e la mia collega non faceva eccezione, infatti dietro il suo sorriso da consumata chiacchierona non lessi un briciolo di riconoscenza, e quello mica era il mio turno e sapeva benissimo che lavoravo senza soluzione di continuità da settimane, che quasi cominciavo ad avere le visioni, che mi sarei volentieri coricato un attimo, giusto per misurarmi la pressione, per riflettere sull’effetto placebo dell’erba legale, del capitalismo che stavo puerilmente alimentando per lo stupido istinto che portava a stonarmi, a non pensare ai miei suonati trent’anni, e invece ero a smanettare al PC, a scannerizzare, inserire date e dati e – sissignora, rispondo io al telefono! – scapicollandomi subito dopo al bar h24 dove si asserragliavano improbabili uomini d’affari con le loro puttane – l’acqua la gradisce frizzante o naturale? – sempre in piedi, su quei piedi doloranti, martoriati dal peso dell’adipe addominale in eccesso e dalle scarpe troppo strette, quei mocassini neri così logori che strofinavo con uno straccio lordo di grasso per occultare i graffi con un aspetto luminescente – e spegni quella musica, deficiente! – mi sussurrò all’orecchio la collega in un momento di quiete apparente, in effetti mi ero scordato di togliere Spotify in ripetizione su This Will Be Our Yearma come, non ti piacciono gli Zombies?! – eppure mangiare un po’ di cervello ti farebbe bene, pensai, inacidito dall’aver abboccato allo sguardo da piccola fiammiferaia di lei, come se l’aborto della sua bambina fosse colpa mia, figurati, da unico maschio del front office mi ero attrezzato a dovere, girando con un condom imperituro nel taschino della camicia celato dietro la targhetta con sopra il mio nome e la bandierine delle lingue che sapevo parlare, ma lei sarebbe stata capace di chiedermi gli alimenti per tutte le bambine che non le erano mai nate, di rinfacciarmi tutte le scopate che la sua gelosia nei miei confronti l’aveva costretta a farsi con svariati one night stay negli angoli refrattari alle telecamere, e anche se ero stato piuttosto chiaro dicendole che non mi attizzava per niente e che non potevo esserle d’altro conforto, lei insisteva a vendicarsi nel suo modo contorto, e di one night stay non ne registravo pochi e la scelta era ampia, soprattutto nei periodi di maltempo, contando l’hotel più di duecento camere e trovandosi vicino all’aeroporto, ed ero quasi pronto a dichiararmi frocio pur di far tacere lei e le sue amiche, dando loro altre chiacchiere in buono pasto.

Ma non fu necessario, perché verso mezzogiorno, gli occhi ridotti a due linee di pastello a cera rosso, come un’allucinazione mi capitò fra le mani la fototessera di una donna conosciuta durante i miei tre mesi di ricovero, una dottoressa giovane che aveva stretto un patto con me, per cui se facevo il buono e prendevo qualche gocciolina di Valium e non uccidevo a coltellate gli aspirapolvere, potevamo fumarci una sigaretta di nascosto, e a volte ascoltavamo gli Zombies insieme o mi leggeva poesie sulle scale antincendio, ed erano molto belle, alcune, e io mi vergognavo tanto, perché non volevo mi considerasse un potenziale violentatore e porco, anche se mi mancava da morire quando non mi visitava, anche se, quando appuntava su un pezzo di carta il mio battito cardiaco, avrei voluto prenderla delicatamente dentro di me e – il volo è stato cancellato, ti va un caffè? – chiese la giovane dottoressa al di là del PC con un sorriso, un sorriso così diverso da quello che la mia collega rivolgeva ai clienti, un sorriso pieno di calore che aveva riconosciuto il tatuaggio colorato di Donkey Kong sul mio avanbraccio sinistro, che lei trovava divertente, e le risposi che mi sembrava un ottimo espediente, non l’avevo ancora preso il caffè quella mattina, e dandole la chiave della 631, le dissi di aspettarmi sulle scale antincendio, quindi, tornato nel back office, salutai l’ennesima smorfia della mia collega sullo schermo in bianco e nero, timbrai il cartellino e caracollai verso lo spogliatoio dei maschi.

L’Inesistente
Credits: Julien de Casabianca – Outings Project, Brooks Museum Memphis, 2018. Paste-up detail [William Adolphe Bouguereau, Au Pied De La Falaise, 1886]