Il concorso di bellezza

Stava per dare il primo morso al panino croccante con brie, crudo e marmellata di fichi che aveva deliberato di concedersi al termine di un meeting aziendale, durante il quale, vuoi per la scollatura trapezoidale dell’abitino nero Dolce & Gabbana, vuoi per la bontà della sua presentazione sul nuovo materiale scovato in viaggio, per l’esattezza una fibra estratta dal derma di squalo putrefatto, si era sentita lambita dagli sguardi sbavanti degli uomini del team, quasi tutti over quaranta, accessoriati di colori accesi e barbe hipster curate e fedi dimenticate nel cassetto, quando nel bar si udì uno stridio simile alla sgommata nella sfida finale di Gioventù Bruciata, quella della macchina che precipita in mare, e poi un tonfo e un gran fracasso di cristalli sulla sinistra, e il cameriere caduto, meno fico di James Dean col giubbotto di pelle rosso, ma gustosamente mastodontico e rasato e con ai polsi tatuate due rose dei venti, la intercettò con le sue iridi glauche per un momento, prima di perdere conoscenza in una pozzanghera di cristalli e marmellata. Lei aprì di più la bocca.

Quando si erano conosciuti lui non faceva il cameriere: tagliava capelli a domicilio e si faceva di crack, ma questo non l’aveva messo nelle sue credenziali; lei lo aveva scelto come hairstylist personale per un concorso di bellezza, a cui si era iscritta più per sfida che per l’ambizione di diventare una modella, infatti la bassa statura, l’insicurezza e il caso, l’avevano sistemata altrove: dopo un ventuno in Diritto Romano e un’abbuffata bulimica di Mars e spaghetti al pomodoro e il tentato suicidio e i tre mesi di ricovero, aveva lasciato Giurisprudenza e con i suoi make-up tutorial su Instagram si era guadagnata un gruzzolo di follower tale da spingere una delle sue fan supercesse a mettere una buona parola con il parente di un parente piuttosto rinomato in città, e d’émblée si era ritrovata in una maison di moda mica male, con il ruolo di Material Research & Development Executive, ruolo di cui ancora non le era chiarissimo lo scopo sociale.

Forse anche per questo non era eccezionale nel suo lavoro, ma ci metteva una certa eleganza e un’ironia quasi sexy che la rendeva piacevolmente buffa ai più, e sebbene dovesse ai social quel piccolo colpo di fortuna professionale, lei era una ragazza senza troppi fronzoli – alta un metro e un succo di frutta! – diceva, e riservata e piena di fobie, proveniente da una famiglia di sangue blu con tre fratelli tutti belli e di successo, i quali ogni tanto le inviavano simpatici sticker e collettivi abbracci su WhatsApp, ma lei non era abbastanza sciocca da non capire che la consideravano una perdente, cosa che la faceva soffrire enormemente, perché più che una solitudine era un isolamento interno alla famiglia a esserle stato imposto; lei aveva reagito aprendo il Vlog delle ciprie e degli ombretti e cominciando a prendere lezioni di equitazione nella tenuta padronale, e i cavalli, che la facevano sentire così alta, e che correvano liberi e forti e forse felici, erano diventati i suoi migliori amici, proprio come la velocità che Toulouse-Lautrec, rottosi entrambi i femori, dipingeva dal letto.

Un’eventuale vittoria al concorso di bellezza da miss quasi nana, la faceva sorridere, ma anche sperare in una minirivincita nei confronti dei fratelli che l’avevano ostracizzata e le cui mogli, a suo modesto parere, non erano poi questo granché, quindi cercò su tutti i siti specializzati e fece un controllo incrociato con i molteplici passaparola delle fan, disegnando una mappa genetica che fatalmente la condusse a lui, a quel figlio bastardo di Figaro che tutte chiedevano e che tutte volevano.

Lui le fece un taglio da diva, che non nascondeva il difetto di statura, ma lo esaltava: le sue mani, guidate dalle rose dei venti, erano piene di talenti e la toccavano sapienti, ed erano libere e forti e forse felici come i cavalli, i suoi migliori amici, che la facevano sentire così alta, e il concorso di bellezza fu un trionfo tanto stupefacente, che i tre fratelli la chiamarono, disgiuntamente l’uno dall’altro, per congratularsi a lungo e intimamente, per farle sapere che erano contenti per lei, che per tre volte ringraziò, riattaccò e pianse, ma pianse anche quando aprì l’armadietto bianco in fondo al monolocale del parrucchiere, che la mattina era in bagno a lavarsi dopo aver sprizzato sudore tutta la notte su lei che, ancora fumante di calore, scoprì l’arsenale di bottiglie di ammoniaca e accendini e cucchiai e strani cristalli in vasetti di marmellata allineati su un angolo cottura tutt’altro che improvvisato.

Quella scoperta non la fece vacillare da subito, la sua passione era troppo fisica, era il suo stomaco: il sangue non arrivava mai alla testa quando pensava a lui, ma si fermava sempre sulle labbra come una farfalla, la farfalla più grossa che, dopo aver divorato tutte le altre, risale per l’esofago. A volte riusciva a vederla, quando si guardava allo specchio per pettinarsi: tirava fuori la lingua e la ingoiava.

Le aveva ciucciato l’anima per sempre da una cannuccia in un’unica combustione scricchiolante: lui era la sua espirazione, un fumo inesauribile che la faceva viaggiare, srotolandosi denso sulla superficie del corpo e dentro il corpo, che sussultava in ogni sua parte come una sella al trotto. Non poteva lasciarlo, non doveva prestare ascolto alle chiacchiere da web – insieme siamo uno! – le diceva, e la storia dei festini non era vera, non era vera la storia che spacciava.

L’uomo che amava era un tossico, e anche se corrispondeva il suo amore, era certa che l’aveva tradita e non solo per sbaglio. Non l’avrebbe mai denunciato alla polizia, perché non sarebbe stata una minirivincita, ma una vendetta, che oltre a sembrarle l’opzione più oscena, non era da lei; però si era imposta di non rivederlo più, l’aveva bloccato su tutti gli iPhone e aveva minacciato di dirlo ai suoi fratelli, che di certo non l’amavano e sarebbero stati meno scrupolosi di lei.

Deglutito l’ultimo boccone del panino, smise di fissare il cameriere steso sul pavimento del bar in una pozzanghera di cristalli e marmellata – almeno non l’hanno preso – pensò, si era rifatto una vita, ammesso che quella non fosse un’altra copertura, ammesso che fosse ancora vivo dopo quella caduta; quindi chiamò un taxi leccandosi il labbro superiore, in preda a una furibonda voglia di cavalcare e sprizzare sudore tutta la notte e precipitare in mare o, almeno, rompersi entrambi i femori.

L’Inesistente
Credits: Henri de Toulouse-Lautrec, Le pas de deux [lithograph from the Circus Portfolio, 1899]