In principio era il bianco

In principio era il bianco e il bianco era presso di te, caduto sull’orizzonte del viottolo che dagli spogliatoi portava ai campi da tennis in terra rossa, un viottolo di ghiaia su cui qualcuno ti aveva fatto lo sgambetto mentre correvi in ritardo alla lezione, e ora vedevi solo bianco per lo shock istantaneo di ritrovarti mento a terra, mentre invece una gru, sopra di te, smuoveva il bigio di una giornata inutilmente estiva, infarinata di quella pioggerellina senza nome, ideale per fare sport e soffocare nella polvere smossa dai calcinacci, perché stavano costruendo qualcosa, pare, un edificio altissimo già venato di abbandono sull’intonaco seccato troppo in fretta, e la gru era arancione e aggredita da stormi di uccelli neri che si staccavano a turno per fare un giro di perlustrazione e quindi tornare ad agganciarsi ai triangoli metallici sbiaditi, e sotto la gru, bocconi sul viottolo di ghiaia tu disteso cominci a sentire male al ginocchio sbucciato, perché si vede quasi l’osso, come se la caduta avesse asportato un pezzo del tuo corpo, rimpinzando il vuoto di bianco e sassolini acquitrinosi, e un uccello già raccatta qualcosa col becco, superando con un saltello ad artigli uniti la gamba ricoperta di rosso liquido fulgente di cui il calzino di spugna s’imbeve pacioso, uno sgambetto di sicuro, ma non vuoi piangere, non vuoi che ti vedano piangere gli altri ragazzi del centro estivo, ora che li hanno riaperti dopo mesi di quarantena con il bonus post vaccino, bisogna pensare solo a divertirsi in sicurezza, divertimento obbligatorio, qualcuno ti corre vicino, a volte ti guarda, a volte no, e mantiene il metro di distanza, magari solo perché non ha alcuna intenzione di soccorrere un nerd in erba con gli occhialini tondi tartarugati, sarà stato il ragazzo con cui condividi la stanza a farti lo sgambetto, lui è uno di quelli che hanno successo in tutti gli sport, uno che respira calcinacci a pieni polmoni e la sera si fuma una siga di nascosto con il gruppo degli onesti, così li chiami tu, il gruppo degli onesti, perché non lo sono, perché sono molesti, perché tu vorresti far parte di loro ma siete troppo diversi, ma perché sei sempre così serio, ti fanno, e a te dà anche fastidio che per loro il tuo livello di serietà sia considerato eccessivo, non capisci cosa ci sia da stare tanto allegri, soprattutto adesso che come profetizzava Radio Maria, il vaccino ha trasformato tutti in zombi, e tu a volte fingi di credere nella profezia per fare il bullo con chi ha l’eloquio meno sviluppato, ma lui, il tuo compagno di stanza, ti parla a mala pena, anche perché tu ogni volta in sua presenza provi come un grande imbarazzo, perché lui emana una luce diversa, lui è il più bianco di tutti, e non solo perché si è tatuato MILK sulla tempia rasata, ma perché si è portato solo una valigia piena di Fruit of The Loom bianche vergate con il suo nome sull’etichetta spillata, e il contrasto cromatico con i ciuffi neri che gli spuntano umidicci sul resto della testa e che già odorano di maschio, è notevole, vorresti dipingerlo a mani nude, quel contrasto, sull’intera facciata dell’edificio in costruzione, dire fermi tutti, prima devo fare una cosa, e dipingere quel contrasto, per te così bello eppure carico di astio, perché lui ti tormenta con nonnismi di vario genere, ad esempio ti nasconde il fondo dei sacchetti di patatine nelle lenzuola, e negli spogliatoi ti ignora, si mette dalla parte opposta perché è amico di un altro con i capelli ossigenati che dopo la doccia si spruzza dell’Axe all’arancia a quintali su tutto il corpo da conato di vomito, però si vede che nonostante il deodorante nauseabondo alle ragazze piace, il suo amico, perché a volte si slingua la figlia dell’istruttore di tennis, che è fulgente come il sangue che cola sulla tua gamba, e gli occhi, occhi così sanno di temporale incipiente, altro che pioggerellina scialba, e quel sorriso sempre gentile anche nei confronti di chi non è considerato popolare, come te che ti prendi gli sgambetti strappacorpo per volatili, quel sorriso è il caffè della mattina, il caffè del bar degli adulti, non quello della macchinetta, ma a te non interessa fare tardi alla lezione di tennis, il tennis è uno sport che ti mette in subbuglio perché ti sembra di raccogliere farfalle, anzi, di spappolarle sulla racchetta facendole rimbalzare mestamente sul fondo della zanzariera che separa le due parti del campo, ed è troppo umiliante vedere la figlia dell’istruttore chinarsi per te, sprecare quel movimento delizioso per una cosa così stupida, che per altro, volente o nolente, la obbliga a sciorinare quei suoi pantaloncini jeans aderenti e sfilacciati di bianco all’universo dei suoi accoliti in attesa a bordo campo, che la contemplano con mani adolescenti contestualmente immobili, ma scorticate da irrefrenabili impulsi reidratati di saliva covidfree quando comincia a vedersi l’osso, ma tu quante te ne fai al giorno, era la domanda che solo tra amici cool era tacitamente consentita, amici cool che se lo misuravano a vicenda tra le mura delle loro stanze dopo gli allenamenti, esplorando dinamiche apparentemente eterosessuali sulle lenzuola lisce come carta vetrata fornite dal centro, forellate qua e là ma sempre bianche, mentre con il tuo compagno di stanza non ti saresti mai sognato di poterlo fare, anzi, avevi una paura tremenda che te lo proponesse, benché adorassi ogni cosa di lui, come si muoveva nello spazio, soprattutto, come lo abitava con sicurezza, con prepotenza, e la sua voce, il disordine della sua biancheria fluttuante per la stanza, che ti appannava le lenti con il vapore che avrebbe potuto essere un vampiro semidiurno chiamato Desiderio, riemergente dal cratere di un vulcano con il tuo cuore ricoperto di lava nella busta dell’Esselunga, eccolo, ti era caduto, grazie amico, dovere, e poi lo vedevi bucare a razzo l’atmosfera verso la sua bara a rigenerarsi le ustioni, ma il tuo compagno di stanza non aveva lo sguardo zelante di Desiderio, che in futuro sarebbe tornato sovente a bussare alla tua porta, rivelandosi un alleato  pericolosamente schizzato di nero, ma per ora, nella sua ambiguità non decifrata, andava più che bene, no, lo sguardo del tuo compagno di stanza era malvagio, era uno sguardo con cui ti disprezzava di sottecchi, swipando su Tinder a sinistra nel suo letto, mentre tu nel tuo, a pochissimi centimetri da lui, immaginavi che il comodino fosse una grossa conchiglia bitorzoluta degli abissi e ascoltavi il suo respiro nell’orecchio come il silenzio assordante e sconfinato degli oceani di Ulisse, strofinavi le dita dei piedi sulla poltiglia di patatine Pai sparse in fondo alle lenzuola, come se quel fondo bianco fosse il cancello di un inferno alternativo, solo vostro, spalancato oltre le colonne di Ercole, e se per orgoglio ignoravi la presenza delle patatine, nella mente e verso il ventre era come entrare in contatto con i frammenti del divino, e immaginando una scena abbagliante, scrivevi sul taccuino, chiudo la porta, il legno ci separa, scendo le scale e sorrido alla speranza di toccarti ancora, anche se sto tornando dove non dovrei tornare, nella casa che non è più la mia casa, perché tu non sei distante, tu sei un gigante che dorme in un angolo della mia testa, nel principio del bianco dove il male ci ha uniti, anche se le patatine scricchiolano sotto le scale e, sei caduto, lei, proprio lei, la figlia dell’istruttore di tennis si è chinata su di te, senti la sua freschissima eau de toilette al lime, e quei temporali sul punto di scoppiare esaminano la tua ferita, fa male, no dici tu, strozzando il dolore in gola, lei ha lunghissimi capelli corvini raccolti con un elastico fucsia, che ti vien voglia di tirarle via a tutti i costi, piccolo ma stai sanguinando, qui bisogna disinfettare, dalla tasca le spunta il cellulare dall’enorme cover viola glitterata e ha circa dodicimila messaggi su WhatsApp non letti, e mi chiama piccolo, che significa io e te a letto non andremo mai, come se osassi solo pensarci, come se la tua fantasia potesse scortarti in quel luogo vaginale senza stonarti e farti vibrare come un elettro punchball da Luna Park in tilt, piccolo, ti chiama, come se gli altri, uno o due anni più grandi di te fossero grandi, solo perché non si vergognano di misurarsi gli uccelli a vicenda, ce la fai a camminare, e allora pensi che forse non sarebbe male farsi trascinare da lei, la top model mondiale del centro estivo, dalla X, ove ora mestamente giaci con uccelli neri a ronzare in superiore attesa di una più completa destrutturazione spontanea delle tue carni, fino alla Y dell’infermeria, alla fine del viottolo di ghiaia costeggiato dalle Z dei campi da tennis, tragitto breve, è vero, ma le formule più eleganti che spiegano i misteri dell’universo sono brevi, e in ogni caso è un tragitto sufficiente a costituire una passerella indimenticabile per tutti gli altri ragazzi che, sbavando damigiane d’invidia, si sarebbero cavati gli occhi da soli lanciandoveli addosso, come i chicchi di riso di un matrimonio che non s’ha da fare, evidentemente contro la natura delle cose, un Renzo + Lucia miracoloso che nemmeno Einstein sarebbe riuscito a dimostrare, forse sì, è bene disinfettare, potresti scortarmi in infermeria, cortesemente, certo piccolo metti il braccio sulla mia spalla, e sorride, bravo, così, e sorride di nuovo, e i suoi occhi temporaleschi ti esplodono in faccia e sai che tutti, ma tutti, perfino gli uccelli zombi mangiauomini di Radio Maria, vi stanno osservando, e il dolore non era mai stato così bello, non avresti mai immaginato che potesse essere così piacevole ciondolare come uno spaventapasseri sbranato dagli uccelli verso l’infermeria, e una volta arrivato lì lei ti stende sul lettino, ti medica la ferita con grazia, brucia, tu non riesci a rispondere, temporali ti affondano in abissi di conchiglie bitorzolute, e alla porta a vetri socchiusa scorgi sovrapporsi le teste dei ragazzi alfa, come i sette nani che guardano un porno, ma lei è più bianca di Biancaneve, grazie, le dici, e lei si china e ti dà un bacio a stampo, rapidissimo ma vero, e tu riesci perfino ad afferrarle l’elastico fucsia, lei sorride, okay, e te lo infila al polso, dirò all’infermiera di venire per un check più tardi, è già alla porta, ragazzi che fate qui, subito al campo, forza, oggi la lezione la faccio io, e senti il tuo compagno di stanza confabulare qualcosa sull’uscio, sono stato io, mi dispiace, lei scuote la chioma sciolta in segno di disapprovazione e se la sistema prendendo un altro elastico fucsia dalla tasca posteriore dei pantaloncini di jeans, non quella con il cellulare, l’altra, va bene entra, ma tra dieci minuti al campo con gli altri, intesi, e capisci che lo guarda con disprezzo, capisci che adesso è molto più arduo che con lei ci finisca a letto, ascolta fa lui, il tuo compagno di stanza, tenendo chiusa per la maniglia la porta dell’infermeria, tu non riesci a guardarlo negli occhi, devo dirti che boh, volevo chiederti scusa, sono stato io, sai come funzionano le cose, tranquillo non è niente, dici come se Santa Teresa del Bernini infilzata dall’angioletto potesse parlare, te l’ho ho fatto io lo sgambetto e mi dispiace, ma dimmi almeno come hai fatto, lei sembra pazza di te, non si è mai comportata così con nessuno, forse le sto solo, no fidati, lei negli occhi, insomma, lei credo che tu le piaccia da morire, tipo sindrome da crocerossina, roba del genere, lei ti divora con quegli occhi dammi retta, dimmi come hai fatto, e perché dovrei, perché siamo compagni di stanza e, adesso sono stanco, dopo me lo dici, vedo tutto bianco, ti do una sigaretta, la fumiamo insieme stasera, da soli, andiamo in un posto, ti insegno io, va bene nella stanza dopo, dopo ti racconto tutto.

L’Inesistente
Credits: Giorgio Bolognese, Desiderio, Reykjavík, 2017