Alice Munro – Chi ti credi di essere?

L’operazione del pensiero mediante la quale si crede in una cosa
è diversa dall’operazione mediante la quale si conosce quello in cui si crede,
e quindi l’una può darsi senza che si dia l’altra.
René Descartes, Discorso sul metodo, 1637

Durante il medioevo accadeva che l’amanuense, nel ricopiare un manoscritto, apportasse delle modifiche più o meno evidenti all’originale. Tali variazioni sul testo potevano essere dettate da ragioni meramente empiriche: difficoltà di interpretazione, maggiore familiarità con certe parole rispetto ad altre, lapsus calami; potevano tuttavia essere anche il corollario di una manipolazione volontaria. Mettetevi per un istante nei panni del suddetto amanuense. Immaginate il contesto di quel ricopiare.
Guardatevi intorno. Che cosa vedete? Dentro, l’umidità rappresa nelle crepe della vostra stanzetta insonorizzata; fuori, la monotonia degli archi a tutto sesto ricalcati dal sole nel chiostro. E poi? Altre finestre, altre ombre che osservano distrattamente una simile umidità e una simile monotonia. Ora, abbassate gli occhi. Concentratevi sul bianco delle pagine. Sfiorate quella superficie rugosa, senza fretta. Perlustratela in ogni angolo. Saggiate la sua irregolarità, impadronitevi di tutti i suoi piccoli fiumi prosciugati. Presto vi rendete conto che quello è il vostro spazio; uno spazio in cui, ricopiando, potete anche raccontare voi stessi. Lì giacciono un’umidità e una monotonia di cui potete entrare in possesso. Lì risiede lo scopo del vostro movimento. Potreste disegnare una mappa di quelle fessure; potreste irrorarle di nuovo significato con il liquido nero che avete a disposizione. Il manoscritto è diventato il vostro oggetto d’amore. Avete il compito di ricopiarlo, così come è stato scritto, eppure, trascrivendo quelle frasi, si impone il desiderio di renderle partecipi del vostro spazio, e quindi più belle secondo il vostro gusto, più comprensibili secondo il vostro linguaggio. È un desiderio che se ne infischia altamente del dovere; un desiderio che non è preghiera né lavoro, ma necessità. Necessità di identificarvi in ciò che non è identico a voi stessi, anche se non arrivate a conoscerlo. Ricopiando il manoscritto rischiate di dare forma a un altro testo: il testo che voi credete essere la copia del manoscritto.
Credere di essere qualcuno o qualcosa è una sorta di atteggiamento innato che ci accompagna fin dalla prima infanzia. Si dice ‘facciamo che tu eri il ladro e io la guardia’, e poi si gioca. L’uso del tempo al passato indica l’apertura di una dimensione altra rispetto a quella che concretamente viviamo, e in questa dimensione proiettiamo copie di noi stessi.
Non simuliamo soltanto di essere il ladro o la guardia: quando, sulla base delle regole di un tacito patto in cui decidiamo di credere, ci trasferiamo in quel passato mai esistito, noi siamo il ladro o la guardia, siamo fuori di noi, siamo altro rispetto a noi in uno spazio creato da noi stessi, siamo il manoscritto da ricopiare. In quello spazio diamo sfogo al racconto di ciò che vorremmo essere e che non siamo: è un territorio in cui il desiderio si dispiega in modo autonomo, trasformandoci.
Il c’era una volta, tuttavia, non è uno strumento di evasione dalla realtà che si perde con la crescita, e non si esaurisce nel suo aspetto ludico. Il c’era una volta scandisce l’elaborazione immaginativa della nostra percezione del mondo e definisce il nostro essere in rapporto al mondo in un processo sempre dinamico attraverso la produzione e l’ibridazione di simboli.
Il libro di Alice Munro mette a fuoco questo problema. Chi ti credi di essere? non è un insieme di aneddoti legati insieme in un unico volume per dare luogo a una storia. L’autrice canadese scrive un romanzo in racconti sciolti. C’è una successione cronologica, ma i racconti non si inseriscono in una struttura precisa: tra un racconto e l’altro potrebbero inserirsi altri racconti, non c’è un vero e proprio inizio né una vera e propria fine, o meglio, il racconto iniziale poteva essere un altro così come quello finale. Le vicende hanno una qualche consequenzialità logica, ma la storia in sé non ha uno sviluppo lineare – con un punto di partenza, uno sviluppo e un punto d’arrivo – proprio perché non prevale l’intento di raccontare una storia, ma quello di presentare, nella sua scioltezza, la continua ridefinizione dell’identità di Rose, la protagonista, mediante l’incastrarsi e il sovrapporsi dei racconti (che avrebbero potuto essere di più o di meno senza snaturare in modo determinante l’estetica del messaggio, ossia quello che l’autrice ha voluto comunicare dando al testo
quella forma e non un’altra).
La forma assunta dal romanzo riflette la fenomenologia esistenziale del c’era una volta. Ciascun racconto (o capitolo) è caratterizzato dal dominio di un simbolo (che a volte coincide con il titolo): 1) le botte da re, 2) le caramelle, 3) il mezzo pompelmo, 4) i cigni selvatici, 5) l’uovo, 6) la stazione degli autobus, 7) le monete, 8) il gatto, 9) la zuppa inglese,  10) l’altalena. I racconti però non sono compartimenti stagni: lasciano fluire le loro immagini nel racconto successivo (o anche in quello precedente) creando i presupposti per una ibridazione simbolica.
La produzione/ibridazione simbolica è il risultato di una trascrizione volta a ridefinire la propria identità. È la mappa delle fessure che ognuno di noi, vestendo i panni dell’amanuense, ha la possibilità di disegnare. Quelle fessure si riempiono continuamente di copie di noi stessi e degli altri nella dinamica del c’era una volta.
Prendiamo a esempio il mezzo pompelmo (produzione simbolica attiva): Rose ha appena lasciato il microcosmo frugale e spietato di West Hanratty per frequentare il college a Toronto; l’insegnante, in classe, si informa su cosa hanno mangiato a colazione gli studenti, per via di un’indagine sull’alimentazione voluta dal governo; le risposte variano in base alla provenienza degli interrogati; Rose, per sembrare una ragazza di città al cospetto degli altri (secondo il suo gusto e secondo il suo linguaggio), dice di aver mangiato un mezzo pompelmo; l’oggetto, in questo caso inventato, per Rose è un’immagine attraverso la quale ridefinire la propria identità, è il simbolo del passaggio di testimone dalla copia-Rose-ragazza-di-campagna alla copia-Rose-ragazza-di-città; è come se Rose dicesse a se stessa ‘facciamo che ero una ragazza di città’, e il mezzo pompelmo è il tramite scelto per una trasformazione, in seguito alla quale Rose scrive un’ulteriore copia di se stessa.
Nel caso delle caramelle, invece, l’oggetto non è inventato, ma è già presente nella realtà percepita (produzione simbolica passiva): Rose si invaghisce di una compagna di scuola più grande di nome Cora, o meglio della copia-Cora-entità-femminile-perfetta; un giorno decide di farle un dono, perché proprio non ne può più di tenersi dentro tutto quell’amore e sente il bisogno di circoscriverlo in un gesto; ruba le caramelle dalla bottega della matrigna Flo, e le mette in un sacchetto che abbandona in prossimità del banco di Cora; Cora riporta le caramelle a Flo; le caramelle nel frattempo sono diventate immangiabili e si sono parzialmente sciolte attaccandosi fra di loro in una poltiglia appiccicosa; Cora riapparirà
anni dopo sfoggiando le sembianze di una ragazzona scura pelosa e strafottente, la copia-Cora-post-restituzione-caramelle; le caramelle quindi, che in principio sono solo caramelle, diventano simbolo sia delle devozione cieca di Rose per Cora (con il furto/dono), sia della mortificazione e del disincanto (le caramelle si sciolgono e non si possono più mangiare, in più vengono restituite, perdendo in un sol colpo la loro intrinseca attrattiva estetica e il valore di cui Rose le aveva caricate con il suo gesto, subendo una degenerazione simile a quella a cui va incontro la stessa fruitrice del dono); anche in questo caso, nel tentativo di identificare se stessa in rapporto al mondo, Rose ricopia; prendono vita due copie di Cora e almeno tre copie di Rose: la copia-Rose-ragazza-invaghita-di-Cora-entità-femminile-perfetta, la copia-Rose-mortificata-da-Cora-entità-femminile-perfetta e la copia-Rose-disincantata-di-fronte-a-Cora-post-restituzione-caramelle.
Alcuni simboli riappaiono con frequenza nel nostro ricopiare, anche in situazioni molto diverse l’una dall’altra, perché più belli secondo il nostro gusto e più comprensibili secondo il nostro linguaggio, riempiendosi di più significati (ibridazione simbolica). Così per Rose l’uovo è simbolo di vita quotidiana, perché con tutte quelle galline in giro per West Hanratty era difficile che non mangiasse uova; è simbolo di morte, in quanto la madre, che aveva un grumo di sangue in un polmone, prima di spirare dichiarava di sentirsi ‘un uovo sodo nel petto, con il guscio e tutto’; è simbolo di amore: ‘Era come se Patrick le fosse venuto incontro tra la folla reggendo in mano un unico semplice oggetto luminoso, una specie di enorme uovo di argento massiccio, una cosa di dubbia utilità e dal peso insostenibile, e che glielo porgesse, per non dire glielo scaricasse addosso, supplicandola di sollevarlo in parte dal carico’.
Per Alice Munro l’identità si manifesta dunque come una visione in movimento nella ridefinizione incessante di se stessi attraverso la produzione/ibridazione di simboli e la scrittura di copie di sé e degli altri. Identificarsi in qualcuno o qualcosa, più che un atto conoscitivo, è un atto di trascrizione creativa. Ciò che siamo è ciò che crediamo di essere ogni volta che i confini del nostro spazio sfiorano i confini di un altro spazio: l’identità è data dalle proiezioni con cui riempiamo l’intersezione tra questi spazi.
Forse bisognerebbe considerare un’eventuale derivazione etimologica dal prefisso greco id- (che rimanderebbe ad orào, ‘io vedo’) a discapito della radice idem (che indica una staticità di fondo). Resta da chiedersi se l’identità sia un insieme aperto di copie che entrano e fuoriescono in continuazione, o piuttosto un insieme chiuso che si espande a macchia d’olio inglobando copie attorno a un’idea centrale e immobile, oppure una cosa completamente diversa.

L’Inesistente