What a Lovely Way to Burn

Lo svegliò il trepestio della ragazza adolescente che tutte le mattine schizzava fuori dal bagno più o meno verso le 8:22 AM in asciugamano rosa, i piedi nudi vaporosi di doccia battevano come martelli bollenti sulla moquette arabescata da polveri generazionali, perché lei correva con i talloni perché, sì, era la sua coinquilina e lo sarebbe stata per altre tre settimane, ma lo rifuggiva come una bestia esotica trasportata in gabbia dalle Compagnia delle Indie, bestia portatrice di chissà quali malattie veneree e, le poche volte che l’aveva vista, aveva quella mise da Lolita scappata dal manicomio con capelli sgocciolanti e cani fantasma alle calcagna, e gli dava le spalle e sbatteva la porta dietro di sé, così lui aveva deciso di attribuirle il ruolo di sveglia umana e di ricambiarla con la stessa moneta, o meglio, con l’altra faccia della moneta, e se riusciva a beccarla con la testa all’indietro, le instillava nelle pupille una gocciolina di terrore da stupro + contagio istantaneo e una smorfia tra lo snob e il disgustato, una tequila sale e limone senza tequila, un distillato di orgoglio made in al di qua della Manica.

Il BUM BUM BUM sempre più forte dei calcagni scorticamoquette della Lolita scappata dal manicomio lo fece balzare fuori dal letto e, assorbite le urla dei bambini che facevano il consueto torello prescuola con il pallone sbucciato nel vialetto, ingurgitò un pasticcone bianco, anzi due, perché il primo giorno, scolata la birra di benvenuto al tavolino esterno dell’unico similbar di quel sobborgo dimenticato da dio, si era ritrovato con una febbre da bollino rosso, ma fortunatamente l’amato padre paranoico gli aveva imbottito il beauty di paracetamolo e raffinati antibiotici dai principi attivi che avrebbero steso un branco di elefanti, quindi afferrò l’accappatoio Lacoste blu che pur avendogli occupato mezza valigia non poteva non portare, perché era rassicurante come un soffice coccodrillo extraterrestre e spesso lo usava anche come vestaglia quando si sentiva troppo poco protetto da se stesso, quindi si fiondò in bagno prima che una qualsiasi altra entità coabitante si palesasse e, girando la chiave, non trattenne un’esultanza da gol al novantesimo minuto, tremò sotto l’acqua gelata, perché Lolita era scappata a caldaia rapinata, s’impiastricciò il viso di schiuma da barba sensitive skin e realizzò di essere in mostruoso ritardo, perciò, senza disinfettarsi i tagli sulle guance, si vestì con relativa fretta, scese le strettissime scale a chiocciola scricchiolanti sperando di non scontrarsi con nessuno, salutò i grassi pesci arancioni nella vasca putrescente a loro adibita in cucina, superò con una rabona il torello prescuola dei bambini che lo maledirono in svariati slang, e si diresse alla linea grigia con Elvis nelle cuffie.

You’re late! – disse la malinconica cicciottella procace dietro la cattedra, che dicevano stesse con uno dieci anni più vecchio con l’epatite C – my apologies, I really had to shave! – lei sorrise un po’ scocciata – but I did my homework, please, let me get in! – e sventolò entusiasta il tema con viso febbricitante e rivoli di sangue aftershave – good boy, sit down and do the mock exam – vide il suo compagno di bravate notturne sparargli con la mano sinistra in segno di ironico rimprovero, be’, facile abitare in centro dopo la mezzanotte, pensò – you only have fourty-five minutes left, darling, so you better start now! – e così prese posto vicino al ragazzo caffellatte che il giorno prima aveva raccontato il sogno in cui era Simba del Re Leone, un sogno ricco di spunti filosofici – thanks, madam, you give me fever!

A fine lezione, il compagno di bravate notturne si avvicinò – ehi prof, hai tutto il sangue in faccia, ti sei tagliato facendoti la barba, mi sa, senti, ho due magliettine sega e stop, e chi pensava a ‘sto freddo assurdo in agosto, meglio se vado a comprarmi qualcosa, ci vediamo alla festa? – in effetti, quella maglia dell’Italia campione del mondo con dorato numero nove di Toni patatone mezzo mangiucchiato dal detersivo e dal sudore, era abbastanza indecente – no, vengo con te, anch’io devo prendere delle cose – non era vero, inoltre detestava lo shopping, il più delle volte, ma la compagnia di quel ragazzo così azzurro che lo chiamava prof nonostante avessero la stessa età, e lo ascoltava come un oracolo di Delfi o un cartone animato particolarmente ispirato, era una botta di autostima, e poi gli voleva bene, in tutti i sensi.

Mentre salivano le scale mobili di Primark e il ragazzo azzurro gli parlava della laurea triennale appena presa in relazioni internazionali e della storia della tipa del dormitorio, il fetore di plastica finta gli invase le narici causandogli un capogiro – quindi per lei era la prima volta? – gli chiese sedendosi su un divanetto di nylon nero vicino ai camerini – eravamo già nudi, nel senso, preliminari infiniti, e mi fa io sono vergine sai, mi parla della famiglia, di quanto sono ricchi, insomma l’ha messa giù pesante, e ti dico, fin lì era andato tutto bene, cioè lei era una gran maiala… come sto? – aprì la tendina del camerino e fece una specie di minisfilata davanti a lui e allo specchio unto e ricurvo, sfoggiando un giubbottino effetto vintage che faceva freddo solo a vederlo e dei jeans a sigaretta con spifferi e brillantini che non arrivavano a coprire fino in fondo le caviglie, ma che avevano il pregio di esaltargli il carnoso fondoschiena – stai una favola, magari prova anche un maglione integro, se c’è! – il ragazzo azzurro si mise a cercarlo – e quindi non l’avete fatto, voglio dire, completo? – indossò un girocollo rosso con borchie natalizie e sopra si rimise il giubbottino effetto vintage – figurati, avevo paura mi saltasse sull’uccello per farsi fecondare e poi matrimonio e cose varie, no grazie, sei tanto bellina, le dico, no problem se vuoi divertirti col preservativo, ne ho ventisette nel cassetto del comodino, ma lei si è offesa, boh, è scappata lasciandomi lì che bruciavo tutto! – si aggiustò il colletto bianco della maglietta dell’Italia che sbucava da sotto, ma non voleva saperne di stare dritto – che te ne pare? – gli rispose OK con un pollice fingendosi superconvinto, non voleva deluderlo o mortificarlo, gli sembrava soddisfatto delle combinazioni del nuovo outfit e, fosse stato per lui, avrebbe potuto vestirsi anche con i sacchi di plastica vera di Tesco e sarebbe stato una favola lo stesso.

Il prof, collassato sulle lenzuola ancora sconvolte dagli ustionanti sfregamenti del ragazzo azzurro, che gli aveva somministrato una merendina al cioccolato e una tachipirina nella hall del dormitorio dove erano tornati a posare gli acquisti, fu svegliato dagli insistenti squilli del telefono – ehi prof, qui c’è tanta roba, alla festa dico, ti ho scritto l’indirizzo su un Post-it, è nel comodino, nel cassetto, sì, prendine anche tre, sbrigati però e quando esci chiudi la porta dietro di te, ciao! – il prof guardò l’orologio temendo il peggio ed erano già le 7:23 PM e non aveva nessuna intenzione di vagabondare per la città saltando da un bus all’altro con quella febbre e implorando che i conducenti capissero la pronuncia della destinazione che avrebbe raggiunto a notte inoltrata, salvo imprevisti, e rischiare la vita un giorno sì e l’altro pure non era il caso, se voleva passare il test finale, quello non mock, con il massimo dei voti, pertanto la metro di mezzanotte si profilava necessaria.

Si sfilò i vestiti e scroccò una rapidissima doccia bollente al ragazzo azzurro, usando il suo bagnodoccia al muschio bianco, il suo accappatoio a nido d’ape, a dire il vero non pulitissimo, il suo spazzolino da denti, la sua Pasta del Capitano verde, il suo profumo, un tester di Prada Luna Rossa e, mangiando un’altra delle sue merendine al cioccolato abbandonata vicino al quaderno, finì il suo test a crocette per il giorno dopo, bevve un gran sorso d’acqua da una bottiglietta mezza piena, anzi, la svuotò, prese il Post-it con l’indirizzo e tre condom dal cassetto del comodino, e uscì chiudendo la porta dietro di sé.

You’re late! – l’insegnante d’inglese era alla festa, e questo già spiazzava il prof, arrivato come un razzo sparato nello spazio – long time no see! – replicò trafelato per prendere tempo nel fracasso generale del pub, mentre con gli occhi cercava il ragazzo azzurro – offer me a drink, I’m turning thirty at midnight! – disse lei sul brillo andante – really? happy birthday! – e il prof l’abbracciò e ordinò due pinte – you know, I’m going to get a new job in September, like a huuuge promotion, you know, and I’ll be in charge of all LAHP applications, PhDs, you know, you are a veeery brilliant student, aren’t you?! – il prof pagò le due pinte con la carta prepagata PostePay – and you’re a wooonderful teacher, aren’t you?! – brindarono e lei lo trascinò in un angolo continuando a blaterare di quanto fosse importante ottenere una borsa di studio al giorno d’oggi, alternando alle chiacchiere pettegolezzi random – you’re gorgeous tonight, I love your smell! – e il prof, pensando che si era cosparso di tutti gli odori del ragazzo azzurro, sentì la febbre saltargli addosso – I love it too! – le disse, e rise – what?! – bevve l’ultimo sorso di birra – I said, I love you too! – e le infilò la lingua in gola, almeno stava zitta.

Aprì gli occhi un attimo e scorse il ragazzo azzurro che, poggiato alla parete opposta con alcuni amici, gli sparò con la mano sinistra in segno di ironico rimprovero – don’t you like the way I kiss?! – il prof le assicurò che era fantastica, ma doveva correre a prendere la metro, la salutò educatamente, ricambiò lo sparo del ragazzo azzurro e uscì dal pub, nove minuti prima della mezzanotte, muovendosi a passi veloci verso la fermata della metro più vicina – hey, do you have a cigarette? – si fermò, alzò lo sguardo e vide tacchi a spillo sul marciapiede e gambe trafilate in bronzo e occhi di una Lolita appena uscita dalla doccia, molto più sveglia, forse meno umana della sua ectoplasmatica coinquilina, si voltò e capì che era in gruppo, probabilmente migravano da un locale all’altro, c’era il pubblico e il tempo scorreva – no, I’m sorry! – disse il prof mostrandole il pacchetto vuoto, e la baciò, e fu come atterrare sulla luna, nessun suono, solo la vastità dei corpi incendiati dalla febbre.

L’Inesistente
Credits: Jean-Michel Basquiat, Bird on Money, 1981