Il tuo nome

Certo, le patatine non saranno state il massimo della croccantezza, ma comunque le sembravano edibili, nonché in linea con gli standard qualitativi del fast food in cui, per autoconvincersi di dare un contributo moralmente idoneo alla new normality ristorativa, per dimostrare di non essere una donna dal facile collant che tira a campare battendo al lume delle bombe antivirali, si era fatta assumere come cameriera aiuto cuoco setacciatrice di lurido, ovviamente per lo shift diurno, perché in spiaggia ci tornava eccome, la sera, alla fine della notte per essere precisi, quando le coscienze si dischiudono nell’universo come incontinenti fiori nittalopi, il piacere si amplifica e le parole diventano preziosissimo nettare da centellinare, e i turisti in mascherina questo lo sanno, essendo per la maggior parte avventori smaialanti di night club spalmati di vomito rappreso, che ballucchiano in infradito pavoneggiandosi sul nulla, con smorfie similvirili e sommovimenti delle braccia ritenuti contestualmente cool, e palpeggiando di tanto in tanto la carta di credito nel taschino interno del costume da bagno con la mano libera dal drink, aspettano con ansia crescente la tacita legittimazione dello stordimento finale dei sensi, aspettano di essere risucchiati dal trash di un fragore dance rigorosamente fuori moda, da tutta quella carne minorenne che fa finta di strusciarsi a distanza, per poi lasciarsi accalappiare da quelle cagne addestrate, impeccabili nel dispensare moine cyborg fatte in casa dal fascino direttamente proporzionale al livello di alcol nel sangue del pollo da mungere, il quale, strafatto di nitroxidina ciucciata dall’ano di palloncini variopinti, caracolla verso l’oceano con il riflesso delle esplosioni negli occhi, tanto domani è un altro giorno, forse, e lei arrotondava così lo stipendio mensile, perché troppo denutrita per allattare, un angelo scheletrico caduto dal lettino d’ospedale per assicurazione sanitaria mai pervenuta, un angelo assetato di denaro, perché mica bastava il sussidio statale a pagare il latte in polvere sanificato del governo, e suo figlio, il bambino che le strillava in grembo perché qualche micro globo di sabbia sovraccarico di sperma le era rotolato dentro e lei non si era lavata in tempo, era biondo dorato, cioè il bambino non sembrava nemmeno suo, ma di abortire non se ne parlava le aveva detto il medico, ne aveva già ammazzati troppi con metodi creativi e stavolta rischiava di tirare il calzino lei, e per sempre, così si era rassegnata a metterlo al mondo e, soprattutto, a proteggerlo dal mondo, così aveva raggiunto un accordo con il capo e poteva portarlo con sé a lavoro, le veniva sottratta una percentuale dalla paga ma era l’unico modo, le avevano concesso come postilla contrattuale la superficie di un quadrato 30×30 cm da adibire a babysitting passivo, e lei con lungimiranza aveva scelto un angolo più o meno areato, teneva il bambino agganciato a uno sgabello in un angolo della cucina satura di vaporosi miasmi e sfrigolii e clangori di stoviglie plastic free, vicino alla finestrella trapezoidale con la zanzariera smagliata, così tra un urlo e l’altro qualche molecola d’ossigeno magari gli finiva nei polmoni, sì adesso vado, disse dando una carezza in lattice al bambino, che si mise a piangere più forte, promettendo inconsciamente a se stesso di odiare il profumo al limone igienizzante e qualunque cosa vagamente lo ricordasse per il resto dei suoi giorni, vado, ho capito, adesso vado, ripeté lei senza guardare nessuno e, ingoiando al volo una patatina quasi bruciata, prese il vassoio e si diresse al tavolo 54, come indicava lo smartwatch delle comande lampeggianti che le serviva anche come cartellino per entrare e uscire dal fast food, fanno schifo, ehi, dico a te, torna un po’ qua, esclamò un adolescente in canotta Leone 1947 con capelli fulvo inquieto che ricciolavano ai bordi di un cappellino della stessa marca, nel senso che fanno schifo, hai capito, le patatine fanno SCHI-FO, sanno di zucchero lercio, tipo orsetto gommoso strusciato sul bitume ancora non ossidato di un’autostrada che non porta da nessuna parte, il ragazzo si tolse gli occhiali da sole, erano rettangolari e le lenti di un rosa scuro sfumato, ehi sto parlando con te, bella cameriera, ma lei non rispose, non sapeva cosa dire, era sopraffatta dalle iridi grigie e roteanti e dal deodorante senza sali d’alluminio di lui, un odore di pulito a cui non era più abituata da tempo, che voluttuosamente s’addensava in impercettibili pianeti spigolosi all’apice dell’abbozzo di peluria che gli spuntava dalle ascelle, per lei era più potente della bandiera nazionale sventolante il giorno dell’armistizio, era un odore di libertà, una libertà vera, immediata, che sapeva di vita vissuta ridacchiando e godendo di orgasmi sinceri, serate con gli amici e successi universitari e futuro da scrivere sulle pagine di un Moleskine in un vagone di prima classe, scusa veramente a me sembravano okay, non sono brava a friggere, scusa, ho iniziato questa settimana, riuscì a dire lei, prima che un altro di quei pianeti spigolosi di gelsomino e legno filtrasse nella mascherina d’ordinanza schiantandosi nella sua narice sinistra, trascinandola altrove, in una baia dall’acqua cristallina e scialuppe di salvataggio bianchissime, disabitate, e corpi nudi nell’acqua, solo due, che si baciavano per la prima volta a occhi chiusi, sfiorando il fondale sabbioso con le punte dei piedi, insomma, voglio dire, perché dovrebbero rattopparla, quell’autostrada, se non porta da nessuna parte, lei lo fissò senza dire niente, almeno dimmi il tuo nome no, scommetto che non è quello sulla targhetta perché sei nuova e hanno riciclato la divisa, HAHA raga, mi sa che c’ho preso, lo smartwatch delle comande riprese a lampeggiare e lei, suo malgrado, fece un rapido inchino e si allontanò dal tavolo 54.

L’Inesistente
Credits: Carlo Carrà, Marina, 1932 – https://www.beniculturalionline.it/post.php?n=618