Caprioli

Alzò il tergicristallo sinistro di quarantacinque gradi, scostò il ghiaccio dal parabrezza con una strusciata di gomito e vide due giovani maschi tenersi per mano e camminare verso di lui sull’ipotenusa di quel triangolo immaginario, e tre biciclette apparire e scomparire tra i fitti archi a tutto sesto nella direzione opposta e sputare un insulto, cui seguirono alcune risate e un insulto nell’eco del precedente; vide le tre biciclette bloccarsi in fondo al portico e un ragazzo color caramello tornare indietro, scendere dal veicolo, frugare in un cestino della spazzatura e trarne fuori una Moretti 66, che spaccò su una colonna e puntò al collo di chi l’aveva offeso; vide l’area del triangolo riempirsi di rumore bianco perforato e vetro e urla e gomme fresche di sangue sul selciato, quindi abbassò il tergicristallo e si allontanò a passo sostenuto dall’auto, voltandosi ogni tanto nel fatuo bagliore dei lampioni ecosostenibili per controllare che la multa in divieto di sosta non fosse volata via.

Il vigile urbano non tornò subito casa, aveva la sensazione che chiunque o qualunque cosa, mettendogli gli occhi addosso, avrebbe potuto vedere quello che era successo nell’area descritta dal tergicristallo, come se tutto ciò che aveva visto e che era accaduto potesse scorrere sul suo corpo in un ologramma triangolare, sul distintivo e sull’uniforme, nelle più piccole fibre di tutti gli indumenti e gli oggetti che aveva addosso, sulla giacca, sulla pistola, sul manganello, sugli stivali con cui zampettava sempre più veloce nelle viuzze laterali, e arrivato in centrale cercò di raggiungere gli spogliatoi appiattendosi il più possibile alle pareti per evitare le telecamere, pregando che nessuno dei suoi compagni lo vedesse, perché era peggio di essere nudi e sporchi e dover attraversare una folla senza dare nell’occhio, era come avere una voragine mobile sulla superficie del corpo che mostrava la registrazione concentrata di tutte le sue colpe, ed entrato negli spogliatoi ne ebbe la conferma, nella grande sala quadrata non solo gli specchi, ma anche gli orinatoi e le porte e le maniglie e le fibbie metalliche delle borse riflettevano pezzi di quel film, e l’onda di tutti quei riflessi lo fece arretrare fino alla porta con l’idea di tenerla chiusa con il proprio peso, e cominciò a spogliarsi, ma l’ologramma continuava a scorrere sulla sua pelle, spense le luci, ma era sempre lì, uno squarcio rosso nell’oscurità che lo spogliava oltre la pelle che si strofinava sul petto, sulle ginocchia, perfino sulle piante dei piedi, ma il calore non faceva che rinvigorire le tinte, e guardando il proprio riflesso nella semioscurità, pareva che si stesse dando fuoco da solo, anzi, si sentì bruciare, riaccese la luce e si lanciò sotto la doccia, aprendo il rubinetto dell’acqua fredda, inseguendo sul corpo e cercando di strappare con le unghie il triangolo rosso – ehi amico, che ti prende, hai spento tu la luce? – nella stanza delle docce, un quadrato più piccolo adiacente alla stanza degli specchi, scorse un tizio alle sue spalle, un collega, visto di sfuggita a mensa qualche volta, ma non ne era sicuro, così come non era sicuro che potesse vedere quello che lui vedeva su di sé, istintivamente si girò e si coprì il petto afferrandosi le spalle con le mani – ehi amico, scusa, ero sovrappensiero – l’altro gli guardò le caviglie, le cosce, i gomiti – non c’è problema – disse senza incrociare il suo sguardo e finendo di sciacquarsi in fretta, e il vigile urbano pensò che avrebbe potuto liquidarlo facilmente, non era tanto più grosso di lui, avrebbe potuto approfittare di un attimo di distrazione, di una bolla di sapone nell’occhio, per fracassargli la testa contro il muro piastrellato di bianco, ma non lo fece, perché voleva capire se e cosa l’altro vedeva prima di prendere una decisione, prima di sovrapporre un’altra macchia all’ologramma delle sue colpe – ehi amico, hai per caso del bagnoschiuma da prestarmi? – l’altro gli guardò le mani, come temendo che scattassero su di lui da un momento all’altro, si chinò guardandogli il dorso dei piedi come se potessero sventrarlo con un calcio, raccolse il bagnoschiuma, che sembrava una bottiglia di vetro senza tappo mezza piena di latte non scremato, e tese il braccio verso di lui – grazie – fece il vigile urbano, notando che il braccio del suo compagno tremava nell’aria, il bagnoschiuma sospeso al centro del quadrato delle docce, e immaginò di afferrargli il polso, torcerglielo dietro la schiena e schiacciarlo per terra affondandogli la rotula nella spina dorsale, ma il collega anticipò la sua eventuale mossa, spaccando per terra la bottiglia di bagnoschiuma e puntandogliela verso la gola, dal basso verso l’alto – non so cosa tu abbia in mente o di cosa ti sia fatto, ma il tuo sguardo non mi piace per niente, amico – il vigile urbano non aveva ancora tolto le mani dalla schiena, che non smetteva di stringere, battendo i denti sotto l’acqua marmata – senti io non voglio niente, io semplicemente – ma non finì la frase, perché arrivò un pugno in mezzo agli occhi e sapore di vetro sulle labbra e ciaf ciaf di calcagni in fuga e rumore di schermo che diventa nero.

Riprese conoscenza in un bagno di latte, dalla doccia continuava a eruttare marmo liquido che si mescolava ai relitti della bottiglia di bagnoschiuma, si alzò per chiudere l’acqua e rimase aggrappato al pomello blu, e pianse, per un reflusso di spavento, per una rabbia sfocata dal fisico dolorante e prossimo all’ibernazione, cercò di issarsi in piedi, ma le gambe cianotiche non riuscivano a sostenerlo, così appoggiò la schiena alla parete e si percosse per far tornare il sangue alle estremità, e parve funzionare, riuscì a barcollare fino alla panca dove aveva lasciato la borsa e l’accappatoio a nido d’ape, si sedette e si esaminò allo specchio alla sua sinistra, l’ologramma era ancora lì, scorreva rosso e triangolare su di lui mostrando al mondo l’incidente sotto i portici e la multa in divieto di sosta, e si fermò sul suo occhio pesto, ritagliandolo nel buio dal resto del volto, lui aprì e chiuse le palpebre guardando il ragazzo ferito al collo, agonizzante, forse morto nel suo occhio e le grida dell’altro e gli aggressori andarsene sotto i portici schizzando biciclette di sangue, aprì e chiuse le palpebre, frugò nella borsa, il collega gli aveva svuotato il portafogli e rubato il telefono, ma le chiavi della macchina erano ancora lì, si girò dall’altra parte e vide l’uniforme accasciata vicino la porta e sopra la porta l’orologio, e pensò che era in ritardo per il cenone a quattro organizzato dall’amica di sua moglie.

Questo vino è proprio buono – commentò la moglie rivolgendosi al maschio dell’altra coppia, un anestesista amante della caccia – sì, cara, direttamente dalle mie vigne – lei non aveva chiesto al marito perché zoppicasse e avesse la faccia distrutta, non faceva mai domande, diceva di non volere il bugiardino di quello che si faceva con i suoi amichetti, si era limitata a pregarlo a denti stretti, mentre gli dava un bacio finto sulla guancia, di coprire le tracce di quello che era e di inventarsi una storia che non fosse troppo indecente, insomma, proprio la sera del cenone doveva ridursi in quello stato? – tesoro, senti che deliziose sfumature di rubino ti lascia sul palato – lui non aveva toccato il bicchiere, aveva pensato di rimettersi l’uniforme, indossare gli occhiali da sole e simulare di essere stato picchiato e derubato a fine servizio da un gruppo di bangla in cerca di droga – ed è tutto merito dei droni – intervenne la moglie dell’anestesista, che sorrideva a pieni denti ignorando di averli tutti imbrattati di vino – be’ è merito mio, visto che i droni sono telecomandati, no? – l’anestesista amante della caccia scosse la testa esalando una sbuffatina di boria – e anche il fucile con visore notturno termodinamico che abbatte i caprioli è mio, ti pare? – la moglie guardò il cacciatore con un lampo di eccitazione negli occhi – e raccontaci, come fai a farli fuori, i caprioli? – il vigile urbano s’inserì nel discorso fissando il rubino liquido nel calice – gli spara, tu che dici? – più che stuzzicare la moglie, gli piaceva punire se stesso di fronte agli altri perché non aveva il coraggio di lasciarla – esatto, vengono di notte nella mia terra a mangiarsi le bacche, il mirino trasforma il calore in colore, osservo per un po’ i movimenti di quelle bestie fosforescenti, decido dove sparargli e gli sparo, proprio come dovresti fare tu con questi extracomunitari che ci stuprano in casa, visto che hai il porto d’armi perché non sfruttarlo? – le due donne risero compiaciute, o magari solo compiacenti – tu che fai il poliziotto, o quello che è, dovresti saperlo, avere paura di uccidere non ti esenta dalla necessità di farlo – il vigile urbano levò in alto il calice e, sotto il tavolo, accarezzò il cane della pistola.

L’Inesistente
Credits: Gustave Courbet, Les chevreuils dans la neige, 1866 [detail]