Canto della biglia nera #4

Lui si ferma sulla soglia; si asciuga la fronte con il polso. Era nella stalla e non appena ha sentito l’urlo è salito per smettere quello che stava facendo.
Lei, a eccezione per la mano destra, non ha vestiti addosso; appoggia la schiena sul giaciglio di paglia; la vagina è sporca di sangue: l’hanno portato via.
Percorre la coscia con l’estremità del suo guanto di pizzo, seguendo una linea retta. Non si separa mai dal suo guanto: dice di averlo trovato in cantina, fra le botti di vino vuote; dice che forse apparteneva ad un abito da sposa, però non si
ricorda cos’è una sposa: qui le spose non si vedono mai.
Lo esaminò con cura, la prima volta, avvertendo un certo fremito sotto le unghie mentre lo indossava. Decise di nasconderlo in un luogo sicuro: nessuno doveva rubarlo, aveva capito subito che era prezioso. Lo andava a prendere quando lui dormiva, tutte le notti, al lume di una candela, per provare lo stesso fremito, quell’affluire di calore al petto, che forse era la paura o il piacere di cui parlano i libri. Lei non sapeva neanche com’era fatto un libro, ma il suono della parola le rievocava nella mente una serie di immagini e sensazioni, delle quali, comunque, non sarebbe stata in grado di spiegare il significato.
Dal giorno in cui una scrofa le troncò il nervo della mano con un morso, non si fa scrupoli e porta il guanto anche di giorno. Se qualcuno lo fissa con insistenza, riceve un colpo di scure in mezzo agli occhi. La tiene sempre con sé, la scure, una di quelle che d’inverno i maschi adoperano per abbattere gli alberi; quando cucina la usa per affettare; con la mano sana, si capisce.
Hanno detto qualcosa? – fa lui chinatosi sulla culla, dopo aver attraversato la stanza. La copertina di lana grezza appare intatta, ma con una lieve protuberanza al centro.
Lei non risponde, osserva con i grandi occhi azzurri il movimento del guanto sulla coscia: le dita si piegano senza reazione; sulla pelle avverte un contatto ruvido.
Lui e lei non sanno perché vivono insieme: una mattina si sono svegliati su quel giaciglio di paglia e hanno scoperto di abitare la stessa casa e di vivere insieme. Altre coppie occupano gli alloggi vicini: anche loro si sono svegliate una mattina su un giaciglio di paglia e hanno scoperto di abitare la stessa casa e di vivere insieme.
– Hanno detto qualcosa? – ripete lui, e alza lo sguardo su di lei, le cui labbra si sono storte in un sorriso.
– Non hanno detto niente.
È una soffocante serata di luglio, la foschia è scesa più fitta del solito. Lui si scopre il torace fradicio e si accosta alla finestra. In lontananza le mura, altissime, tagliano l’oscurità nascente. Scappare è impossibile. Non c’è un re, non ci sono guardie, non c’è nessuno che impedisca la fuga. Molti cercano di squagliarsela: si arrampicano fino ai merli sferici della sommità, aiutandosi con corde o scale; agiscono in zone diverse, sebbene le mura disegnino un cerchio perfetto e la loro superficie sia ovunque uniforme; intraprendono la scalata addirittura in stagioni alterne, per verificare se la foschia si diradi o meno a seconda delle variazioni climatiche, rivelando magari un passaggio, una fallace speranza; ma il risultato, alla fine, è in ogni caso il medesimo: chi arriva in cima ha sotto i propri piedi spirali di nebbia azzurra che si avvolgono all’infinito, e nient’altro. Alcuni osano la discesa, ma non tornano indietro per raccontarla.
Anche lui partecipò a un’operazione di fuga che coinvolse l’intera compagnia maschile: i settantasette, giunti alla meta, non coprivano la metà dello spazio intercorrente tra due merli. Tutti loro guardarono sotto i propri piedi: alla vista di quei vortici immortali, si tagliarono la gola. Lui non ebbe abbastanza coraggio per farlo.
Il suicidio non è cosa rara; la mattina seguente c’è puntualmente un altro che si sveglia nel giaciglio di paglia, al posto del cadavere. Le coppie sono settantasette, il numero deve rimanere inalterato.
Lei scoppia in una risata, continua a fissare il suo guanto di pizzo.
Lui si volta:
– Perché ridi, che ti hanno fatto?
Il bambino era lavato, l’avevo messo nella culla.
Lui si avvicina di nuovo alla culla: sotto la copertina può esserci ancora qualcosa di vivo.
     – Ti hanno fatto del male?
Lei smette di ridere e si asciuga le guance.
     – Non lo so.
     – E questa cos’è?
Lui ha sollevato l’orlo della copertina.
     – Cosa?
Lui alza la mano verso di lei, tenendo fra pollice e indice una biglia nera:
     – Questa.
Lei blocca il braccio e abbandona la mano fra le cosce. Gira il collo alla sua destra.
– Allora?
– Non lo so.
– Sei sicura? Cerca di ricordarti, potrebbe essere importante!
Lui ha fatto scivolare la biglia nera nel palmo della mano.
     – Ho dimenticato come si fa a ricordare – fa lei guardando la biglia nera.
     Lui ci passa sopra il dorso terroso dell’altra mano.
– È calda, sembra che respiri.
– Le altre coppie non mi hanno detto che lasciano qualcosa: li prendono e basta e aspettano che ne facciamo altri.
– Se ne saranno dimenticate, forse hanno lasciato qualcosa anche a loro.
– Il bambino era lavato, l’avevo messo nella culla.
– Ah! – lui scaraventa lontano la biglia nera che ha avvicinato alla bocca.
– Questa cosa brucia le labbra!
Lei scoppia in una risata.
– Perché ridi, che ti hanno fatto?
La biglia rotola in una fessura del pavimento.

L’Inesistente
Credits: Fabio Romano, Femmina su tela, 2011