Ma devi sempre girare con quel coso rosa sottobraccio, lo sai vero che non ti farai mai nessuna, dice il tuo compagno di stanza alludendo con cipiglio al lupo di peluche che a sedici anni ti porti ancora appresso, e lui non ti odia, anzi, si è offerto di prestarti una sua camicia, o meglio, ti ha detto che quella sera vuole che tu pucci il biscotto, perciò devi sforzarti di apparire figo, come lui che gira sempre in outfit impeccabile e sa quello che fa, anche quando non deve fare niente di particolare, ad esempio quando gira una pagina di giornale sportivo steso sul telo Leone 1947, da far sbavare damigiane alle teenager del villaggio turistico, stregate dal suo modo di riavviarsi in due tempi il cesto di capelli color miele, prima con uno scatto della tempia e poi, a seguire, con la mano, che trattiene indietro i riccioli fino alla fine concentrata del capoverso, ed è uno schianto vedere i riccioli ricadergli a rallentatore sul naso e constatare che deve ricominciare daccapo, e inoltre baciava bene, con la lingua a mulinello, afferrando digitalmente la femmina in questione tra i seni e le ascelle con la nuca aderente alla grata spargicloro sciabordante a bordo piscina e i capezzoli irrigiditi attraverso il costume, mentre tu, oltre ad avere capelli a spazzola biondo scialbo tagliati corti per l’occasione, non hai mai baciato nessuno, e hai portato solo qualche maglietta bianca della Fruit of The Loom per la stagione da animatore, che hai iniziato da nove giorni perché tuo fratello è un po’ artista e disegna le scenografie per il cabaret e ti ha invitato a raggiungerlo, d’altra parte è abbastanza comune per i ragazzi delle tue parti fare l’animatore d’estate, sicuramente è meno faticoso della pesca, però la moda ti era sembrata sempre inconsistente, e poiché avresti dovuto occuparti del miniclub, pensavi che un tessuto antisolare sacrificabile a pennarelli e tempere senza troppi rimpianti fosse tutto ciò di cui avessi bisogno, ma quella intuizione pratica, peraltro così lontana dal tuo spirito, decisamente più sognante, si stava rivelando un errore madornale, perché le ragazze non ti cagavano, e non che la cosa in sé ti turbasse, ma essendoti capitato come compagno di stanza un ragazzo pubblicamente figo, con il quale era nata un’intesa silenziosa ma profonda, per non dire quasi un’amicizia inestinguibile basata sul nulla, l’ultima cosa che desideravi era che quest’ultima si rovinasse per colpa di indumenti dallo scarso sex appeal eterosessuale, perciò in te, forse per la prima volta, era nata la voglia di farti notare, e non perché ti portavi dietro un lupo rosa di peluche, ma perché il tuo aspetto era a tal punto seducente da conquistare l’apprezzamento estetico altrui nonostante il lupo rosa, che ancora non ti senti pronto a lasciare nella stanza, nemmeno stasera che hai un mezzo appuntamento con una ragazza estremamente carina della città qui in vacanza con i suoi, perché non ti fai un tatuaggio con l’henné tipo il mio, piuttosto, guarda, e ti mostra una rosa di codici alfanumerici stile Matrix tatuata poco sopra l’osso iliaco destro, guardandoti da sotto in su e aspettandosi un wow, e tu gli dici wow, non male vero, cioè tanto poi va via, dice tirandoti una sberla amicale sulla guancia, fatti un po’ vedere, si accende una sigaretta e arretra con la gamba sinistra di mezzo passo per esaminarti meglio con le sue movenze da micio esperto, tu hai un asciugamano legato alla vita, mentre lui ha ancora su il costume da bagno di Tommy Hilfiger che gli modella sinuosamente il culetto sodo e il sale sulla pelle e la sabbia a chiazze e un ginocchio sbucciato luccicante come un pomodoro ciliegino spiaccicato con la forchetta nell’olio del buffet della mensa, be’ sì dai sei carino, qualche muscolo in più non guasterebbe, ma mangi, dovresti mettere su un po’ di ciccia, mangia, sembri un deportato di Auschwitz, solo che da te non si cava neanche un grammo di sapone, dice passando la nocca dell’indice sinistro sulle tue coste sporgenti come sui tasti di uno xilofono, e fa un tiro dalla Marlboro succhiando il filtro tra indice e pollice, mantenendo nascosto il cilindro cartaceo a testa in giù nella mano destra, chissà dove ha imparato a fare così, e la stanza, piccolina, si riempie di una nube densa in cui i raggi del sole calante si sovrappongono come lame elettriche intermittenti in varie gradazioni di giallo preludendo alla serata libera in discoteca, che ogni venerdì sera a voi animatori spetta di diritto a partire da mezzanotte, lui sorride come se quel tiro forte l’avesse fatto sballare, ne fa un altro e, trattenendo il fumo nei polmoni avvicina il filtro alla tua bocca, facendoti segno con la testa di provare, alzi la mano come per dire no grazie, ma lui insiste, butta fuori il fumo, sorride, è facile, è come respirare, pensa che sia una bombola d’ossigeno e tu sei nello spazio nero, tra un pianeta e l’altro, e stai per soffocare, okay ma io, solo un tiro, e lui si aspetta che tu appoggi le labbra sulle sue dita, non esistono altre opzioni, non esiste un evento b che possa dare un aspetto alternativo al corso degli eventi, lo guardi e capisci che non puoi non fare quella cosa lì, anche se non vuoi, o forse sei solo spaventato, tutto rigido in quella stanza come il capezzolo di una ragazza, hai paura di deluderlo, e quindi lo sfidi, che sarà mai un tiro di sigaretta, ha comprato quel pacchetto di Marlboro da dieci al tabacchino, pagando con il suo portafogli di cuoio stinto che fa persona vissuta e che all’interno ha un scomparto per le monete con bottoncino d’oro, uno dei suoi tipici accessori azzeccati, anche suo padre come il tuo è un pescatore statale, e mica ha tutto quel cash da permettersi ogni cosa griffata, ma a lui basta una sola cosa indossata o sciorinata strategicamente al momento opportuno per dare l’impressione di essere vestito di marca da capo a piedi, e anche con un certo gusto, assimilato in una struttura borghese medio alta, tipica della gente che frequenta, e perciò atto a infondere nello spettatore la fiducia di chi osserva un prodotto sociale sano, eppure le ha comprate insieme a dei pesciolini di liquirizia, le sigarette, per stemperare la cosa agli occhi del tabaccaio, dopotutto anche lui ha sedici anni, anche se ne dimostra uno o due di più, e sarebbe illegale, ma tanto quello se ne infischia e vende sigarette e Bacardi Breezer pesca e limone senza distinzioni generazionali, vedi le sigarette e i pesciolini sul comodino tra i vostri due lettini striminziti, deve aver masticato qualche pesciolino già nel tragitto dalla pineta alla vostra stanza, perché il filtro è laccato da una sottile patina di saliva grumosa di nero e ancora non secca, ed è lì che metti le labbra, e torni a guardarlo, respiri come lui ti ha detto di fare, ma chiudi le palpebre inavvertitamente, perché quel contatto è troppo intenso, bastano pochi secondi, le tue narici toccano tutti i seni che lui ha desirato di toccare durante il giorno, li vedi tutti in fila apparire e scomparire uno dopo l’altro sulla parete interna delle tue palpebre chiuse, a volte i reggiseni sono slacciati, la stoffa è intrisa di medusa sfrigolante sullo scoglio, la pelle ha giocato a volley, scotta sulle labbra come gomma schiaffeggiata, è fumo che scende nella trachea e incendia gli alveoli, tossisci, forte eh, tossisci ancora, non riesci a smettere, hai paura di sputare i polmoni sul pavimento, lui versa dell’acqua minerale in un bicchiere da festa di compleanno usato, che prende da terra soffiandoci sopra, bevi, tu prendi il bicchiere, ormai rassegnato a ubbidire all’universo senza opzioni che lui ti sta imponendo, probabilmente ti metteresti ad abbaiare se te lo chiedesse, ehi ripigliati, fa un altro tiro e si volta per afferrare qualcosa dall’armadietto alle sue spalle, almeno provatela dai, è una delle sue camicie, bellissima e anche stirata, sì mi sa che più o meno abbiamo la stessa taglia, e vedi i suoi occhi carta da zucchero misurare il collo e le spalle del tuo torso postdoccia, che esala la prospettiva angosciosa di dover incontrare lei quella sera, appannando la finestrella allungata sopra il comodino, che sembra un sarcofago trasparente inclinato verso di te, perché si apre così, il fumo resta quasi tutto nella stanza, oppure per fumare una sigaretta devi mettere in conto di squarciarti il braccio in quella fessura con affaccio sulla pineta, oppure devi andare fuori in mezzo alle cicale ancora festose tra gli esoscheletri delle sorelle morte, e sentire gli aghi di pino scricchiolare nel tramonto e perforarti le piante dei piedi ancora viscidi di bagnoschiuma alla mandorla comprato in offerta alla Lidl, che sa di tutto fuorché di mandorla, è qualcosa di simile al marzapane marcio, anche se marcio il marzapane non l’hai mai mangiato, e il profumo della terra si mescola a quello della resina e al chiacchiericcio tintinnante di chi, al di là della staccionata di bambù che separa la spartana residenza degli animatori dalle ville oceaniche con piscina effetto infinito dei clienti più ricchi, si concede un aperitivo a base di Spritz e noccioline tostate prima del cabaret, e lei gira voce che ti salterebbe addosso, ma che dici, grazie all’acqua ti senti un po’ riavere, ma in petto ti arde ancora un piccolo inferno e non sai se è per la sigaretta o per quella situazione, me l’ha ha detto la sua amica a colazione, magari è una balla, magari è vero, in questa stanza non si respira, e si accosta alla finestra per fumare attraverso la fessura che dà sulla pineta incastrandosi tra il letto e il comodino, tu ti siedi sul letto e cerchi mutande e calzini puliti, vuoi arrivare un po’ prima a cena, magari lei è già al ristorante e riesci a incrociare il suo sguardo prima di infilarti nel refettorio degli animatori, vuoi scoprire che effetto ti fa vederla da solo, senza la presenza di qualcuno più figo di te al tuo fianco che possa eclissare tutto frapponendosi tra te e la traiettoria dei suoi sguardi, lascerai la camicia fuori dai pantaloni e la userai in qualche modo per coprire il lupo rosa, anzi no, lo porterai in bella vista con te, e se lei ti vuole vorrà anche quella cosa di te, anche se non ti senti pienamente in te, la camicia che stai abbottonando partendo dal fondo già ti avviluppa, è pulita, ma è come se lui l’avesse già indossata, magari solo un attimo, e poi aveva deciso di mettersene un’altra, e quel lasso di tempo in contemplazione di se stesso era stato sufficiente a trasferire una spruzzata di molecole del suo profumo caldo e legnoso nelle fibre di cotone, che avevano assorbito anche una punta di sudore, il sudore della sua pelle tonica e mai troppo abbronzata, che gioca a volley e tocca seni e mette sigarette nella bocca degli amici, quella pelle ti possiede come una Barbie è posseduta dal suo accessorio, lui si accorge che ti stai annusando l’avambraccio, e tu con malcelato imbarazzo gli dici, è buono, il profumo, lui butta fuori il fumo sbirciando uno spicchio di cielo dalla fessura della finestra, sì è Tom Ford, ti chiedi come faccia a permettersi tutte queste cose, va bene che si tratta di accessori accuratamente selezionati, ma in ogni caso non sono pochi, e un profumo di Tom Ford non sai neanche chi sia, ma senza dubbio vale più di tre giornate di lavoro laggiù, forse più di tre, ti piace, sì mi piace, usalo pure quando ti va, è parecchio intenso quindi ne basta poco, senti come un formicolio diffuso che parte dalle ginocchia e sale su, vedi il lupo rosa sul tuo cuscino, sei quasi sicuro che la ragazza di città l’abbia già notato quando oggi pomeriggio è venuta a riprendere il fratellino al miniclub e ti ha chiesto se era stato bravo, e tu le hai detto bravissimo, senza darle troppa retta, pensando che anche quella maglietta era da buttare con tutte quelle impronte di manine rosse che la piccola peste ti aveva impresso nel ventre e nel petto come una mitragliatrice, ma c’è anche il ping-pong per bambini, forse l’intuizione pratica di non portare vestiti di pregio non era così campata per aria, dopotutto, che figata, tu ci sai giocare, lei si è già rannicchiata al tavolo da mini ping-pong, tu la guardi, è proprio una ragazza da sogno, una striscia di capelli bagnati le esce dalla bocca come un filo di fiori, come Clori messa incinta da Zefiro nella Primavera di Botticelli, sicuramente una come lei ha la vagina depilata, pensi mentre lei prende il lupo rosa che hai lasciato sul tavolo da ping-pong per liberarlo con un sorriso, e ti vergogni subito di questo pensiero, per te una vagina è tanto enigmatica quanto un profumo di Tom Ford, non sai esattamente come sia fatta, faresti fatica a disegnarla e ti fa abbastanza schifo l’idea che abbia dei peli, però sai che ha un suo valore intrinseco, sai che quel foro non è un foro qualsiasi, ma un luogo di passaggio magico, così come è magica la camicia che stai finendo di abbottonare davanti allo specchio grande appeso alla porta del bagno, ti siedi al lato opposto del tavolo da ping-pong, metti il lupo tra le gambe incrociate, davanti alle impronte di manine rosse su sfondo bianco, e le ricambi il sorriso sforzandoti di non pensare alla sua vagina, arriviamo a undici okay, il fratellino di lei è sgusciato via dai suoi amichetti, che per dare gli ultimi ritocchi al body painting cominciato dopo pranzo, battono mani e piedi negli spazi vuoti del lenzuolo adagiato per terra seguendo una loro logica apparente, tutto il giorno così, ti chiede lei sempre più raggiante, e si tocca la faccia, il naso e la guancia inarcando le sopracciglia, ti tocchi anche tu, la tempera ti è arrivata anche lì, guardi la mano sporca di rosso, quindi guardi lei come per dire, che ci devo fare, lei ride e lancia la pallina, che rimbalza sul suo campo, scavalca la microrete separatrice, rimbalza sul tuo campo e va fuori, uno a zero, una folata di vento le strappa il filo di fiori dalla bocca, dai così non vale però, un’onda più forte delle altre filtra sotto il tendone del miniclub, i bambini urlano eccitati e vanno a battere mani e piedi sull’alone dell’acqua che si ritrae sporca di rosso, è molto che lavori qui, nove giorni, la pallina schizza sul minitavolo, palleggiate, io sono arrivata oggi, ma dai, che scemo, lei schiaccia e ti fa punto, dopo nove giorni dovresti essere un campione in questo gioco, magari sei tu che mi distrai, un’altra folata di vento ha spinto il filo di fiori dall’altra parte, adesso le esce dall’altro lato della bocca, ha le tette piccoline, ma non importa, i capezzoli si vedono lo stesso, non riesci a guardarla negli occhi, in generale tu guardi poco negli occhi, stasera ho visto che c’è uno spettacolo di cabaret, tu sai recitare, no ma mio fratello si occupa della scenografia, che bello, vi assomigliate, no per niente, e come mai non reciti, perché si capisce subito se sto dicendo una bugia, e lei fa tipo dai non ci credo, e poi, ti chiede il compagno di stanza facendo l’ultimo tiro e spegnendo la sigaretta sul davanzale, e poi mi chiede una cosa strana, tipo, tipo se potevo darle la maglietta, e io non sapevo cosa dire, e poi cosa hai detto, boh non mi ricordo, come non ricordi, ero troppo su di giri, lui ti aggiusta il risvolto delle maniche, ah sì, sono andato dietro il tendone a cambiarmi la maglietta, dalla parte opposta a quella del mare, sono tornato da lei e le ho chiesto cosa volesse farci, e lei, lei si toglie il filo di capelli dalla bocca, così, con due dita, e mi dice, stasera cabaret, e stasera al cabaret lei è così vicina che senti la plastica della sdraio blu dritta nel naso sopraffare tutti gli altri odori della notte stellata, sembra appena uscita dall’utero della fabbrica, sagomata fra due rulli compressori ustionanti, vieni qua, ti dice la ragazza di città, o meglio, te lo fa capire accoccolandosi lateralmente sull’estremità sinistra della sdraio, un filo di capelli le esce dalla bocca e la guancia destra aderisce per intero alla plastica, mentre languida ti percorre con le pupille dalla punta delle scarpe al colletto della camicia imprestata, pensi che le rimarrà il segno rosso della plastica microforellata sulla guancia per l’eternità, seduto al tuo posto sulla tua sdraio, con il lupo rosa di peluche accanto, un po’ te lo auguri, mica l’hai invitata, ma lei è venuta lo stesso, è apparsa sul retro della discoteca, sotto quell’ombrellone sparuto e chiuso che nessuno utilizza mai, perché è appartato sotto il grande edificio bianco con le finestre glitterate di musica dance, e ogni tanto ti si rovescia in testa il ghiaccio di un Tequila Sunrise abbandonato sul davanzale, e per raggiungerlo bisogna farsi un po’ di scogli fracassacranio a balzelli, per poi finire su una putrida strisciolina di sabbia che non si sa se considerarla spiaggia libera o appendice necrotizzata dello stabilimento balneare, inoltre lì si depositano un sacco di alghe, specialmente con la bassa marea come adesso, vieni qua, muove leggermente le dita di fronte a sé, come se volesse grattare via la plastica e aprire un varco per l’atterraggio di un disco volante, parlavate di cose semplici prima che calasse il silenzio, della musica assordante, degli shot rum e pera, delle seggiole di velluto rosso del cabaret, così scomode, eh già, proprio scomode, che cosa orribile, ma quanto sarà inquietante quel faro in lontananza, perché dici così, le hai chiesto, ma lei non ha risposto, allora hai preso un bastoncino di bambù mezzo conficcato nella sabbia fine, e hai cominciato a disegnare qualcosa, non vi eravate dati nessun bacio finora, non c’eri nemmeno andato alla festa, lei si era comportata in modo assurdo al cabaret, si era staccata dal velluto rosso della poltroncina mentre tu avevi allargato un braccio per essere uomo e cingerla durante lo spettacolo, ma lei appunto ogni volta che provavi a metterle il braccio attorno al collo, si staccava, lasciandoti lì in quella posa, a raccattare i resti della sua ombra in quella voragine tra il velluto e la spina dorsale attraverso cui mille occhi gialli ti scrutavano, e tu non capivi perché facesse così, ti stavi buttando e lei si scansava stile botola scorrevole, e se riprovavi, le continuava a scorrere, come se in quel punto preciso del sedile ci fosse un sensore che la facesse scattare in avanti, così, ferito nell’orgoglio, ma soprattutto nel panico più totale, ti eri limitato a sperimentare se anche il bracciolo condiviso avesse un sensore, e ci sta che ce lo avesse, perché lei non accettava la tua mano nella sua né un vago strusciamento di avambracci, ma ogni volta si ritirava fuggevole come acqua marina e ti lasciava all’asciutto, finché a un certo punto non si è ritirata totalmente, staccandosi da tutto fuorché da un pezzetto di ciglio di sedile su cui se ne stava fissa e non rideva mai come se dovesse trattenere chissà che cosa, che bastarda, hai pensato, e lo spettacolo era di una noia mortale, non vedevi l’ora che finisse per andare in un angolo della spiaggia a sbollire il tuo dolore cosmico circondato da conchiglie porno scoperchiate che mostravano alle stelle le loro segrete madreperlacee, e non ti sarebbe dispiaciuto fare un giro lì dentro e sparire di nascosto da amici e parenti, da qualunque occhio giallo in agguato nel buio della tua umiliazione, e le stelle, loro andavano benissimo per piangere, il loro sguardo sublime e indifferente sulla bassa marea ti avrebbe aiutato a rimpicciolire, a scinderti in tanti piccoli te, un piccolo te per ciascuna conchiglia, così sarebbe stato bello disperdersi e dimenticare quella donnaccia infame, vieni qua, ti dice lei, pensi che forse ha bevuto troppo, che faresti meglio a rompere quel silenzio e parlare del più e del meno, lei non ti merita, dovresti andartene e lasciarla lì da sola a strofinarsi sulla plastica, visto che le piace così tanto, ma lei si alza a sedere, il formicolio che si propaga dalle gambe in su rischia di farti cadere, si è tolta i tacchi per venire fin là e si è ferita a un piede, luccica nel chiardiluna sotto l’ombrellone, il palo di legno è nel punto medio della retta che vi separa, senti io, ma tu la prendi per un polso, questa volta sei tu che le vuoi imporre il tuo universo, scivoli accanto a lei, su quella plastica blu, e le togli il filo di capelli dalla bocca, si capisce che è nervosa, pazienza, il tunz tunz defenestrato nella semioscurità ti incoraggia, avvicini le labbra alla sue senza smettere di guardarla, non sai cosa fai ma continui a farlo, certo che quel gesto irreversibile un significato ce l’abbia.
L’Inesistente
Credits: Félix Vallotton, Sunset, 1917 © Kunsthaus Zürich