Tu sei il quasi

Lui ha già addentato il suo Kinder Pinguì e tu non riesci a dire niente, abbassi lo sguardo sui suoi boxerini rossi fragranti di sonno e pensi sia venuto fin lì dal suo letto solo con quelli addosso mostrando il culo a tutti, non è come pensi, allora com’è, e anche se fosse, un piccione becca un vasetto di yogurt vuoto al di là della finestrella con smile digitalmente inciso nell’unto, la luce di un lampione lo elettrifica nella notte, il piccione sbatte le ali ma non vuole o non riesce a volare, non ha importanza di come le cose realmente siano, sembra dirti lui sporcandosi apposta i contorni della bocca, come ti aveva raccontato che faceva da piccolo, quando si ritrovava di fronte al frigorifero immenso e lo apriva in punta dei piedi per ingozzarsi di tutte le merendine che c’erano con il cravattino pre concerto di fine anno della Burberry, che poi teneva su come il cappio di un boia mentre vomitava nel water, riempirsi svuotarsi corrodersi, quant’era bella e confortante quell’umiliazione, il bruciore artefatto nell’esofago era già una vendetta nei confronti del mondo, e se le dita puzzavano amen, Bach non se ne sarebbe accorto, le mani strofinate come un pazzo sotto l’acqua bollente con una saponetta alla lavanda, gli occhioni verdi National Geographic persi nello specchio, i signori gradiscono un caffè, la cameriera in mascherina è rimasta in cima alla scala a pioli per prendere le ordinazioni sull’orlo del soppalco, ha un passeggino tatuato sulla spalla, una coca tiepida per me, le dici abbassando gli occhiali da sole rosa rettangolari e pieni di ditate per meglio osservare le labbra impiastricciate di lui, ma lei fa segno di non aver sentito, con tutta questa techno lounge bisogna urlare un po’, metti le mani a megafono e ci urli dentro una coca tiepida, e per il tuo amichetto, per me un Kinder Pinguì, fa lui ingollando l’ultimo pezzo del precedente, e un Tequila Sunrise per favore, aggiunge con la bocca piena, la cameriera se ne va, lui torna a guardarti, sorride, corpo albeggiante e naso da copia romana perfetta, lascia cadere la stagnola sul tavolino, quindi la apre nei punti dove era rimasta incollata a se stessa, e comincia a stirarla con l’unghia, dal basso verso l’alto, ti sorride ancora, quella Venere di Cnido sul libro di filosofia del liceo l’ho disegnata io, intendi il culo panneggiato alle spalle della dialettica di Hegel, esattamente, credevo che, credevi male, tuo fratello non avrebbe mai sporcato il libro così, ma lui era bravo a disegnare e il tratto, voglio dire, ero certo che fosse lui, perché gli ho insegnato io a disegnare, abbiamo cominciato proprio durante le lezioni di filosofia, tum tum tum, il piccione picchia il becco sul vetro della finestrella, o forse la testa, il piccione prende a testate il negativo della faccina sorridente, il vento gli ha portato via il vasetto di plastica, ma l’uccellaccio continua a sbattere le ali, la sua ombra si riflette sull’interno della carta stagnola, ora completamente distesa pancia all’aria, guarda ganzo la vedi, ti fa lui, cosa, l’ombra del piccione, e mentre lui fa scrocchiare le caviglie come se volesse allungare una Y di gambe nude su di te da sotto il tavolino, accendi una Camel Blu e gliela porgi, lui piega in avanti il testone ancora umido di doccia della buonanotte, e la prende, la schiena inarcata tra la sigaretta e lo sgabello, soavissima striscia di vertebre, la faresti sparire in un lampo, senti so che magari sei deluso, chennesò ti aspettavi di incontrare qualcun altro, e magari, oh grazie tesoro, la cameriera poggia le cose sul pavimento, compreso il pos, chiaramente vuol farsi pagare senza salire sul soppalco, lui ti fa un gesto come per dire faccio io, tira fuori la carta di credito dai boxerini rossi come per dire faccio io come quando all’inizio pagavo tutto io, quando ancora non l’avevi tradito, tira e molla vari, lui che si mette a fare il netturbino e la fata dei boschi come comparsa a teatro e poi, ho scopato, gli scrivi su un bigliettino ripiegato su se stesso che infili nella tasca superiore del suo astuccio Eastpak, ho scopato e mi sono accorto che mi mancano quasi tutti quelli con cui ho scopato, e tu sei il quasi, lui sta già scartando il secondo Kinder Pinguì e ti sorride con la sigaretta stretta tra i denti, ti sembrava una di quelle frasi in grado di salvare tutto, ma quella vacanza sull’isola maledetta, c’era la villetta di un tale sulla scogliera e un letto matrimoniale libero con lampade arricciate e scale a chiocciola e chincagliere da lockdown a non finire, e su una panchina mezza arrugginita dopo aver visto il film hai detto okay ci porto lei, la tua ragazza, mica lui, perché stavi tipo frequentando entrambi e, tum tum tum, il piccione sfonda il vetro con lo smile, precipita nel buio della sala interna e va a schiantarsi sul dj, un batuffolo di piume esplode nell’aria, senti le sue gambe dappertutto, vorresti aggrapparti a tutte quelle gambe e chiedergli perdono, o almeno fargli capire che ci sei, che siete l’uno dentro l’altro nell’eco del suo sonno, e che lo sarete per sempre, ma lui non c’è più, le piume cadono lentamente sul tavolo, il telefono squilla, rispondi, forza, rispondi, pronto ci sei mi senti, si può sapere dove sei, io non, io non cosa, non so dove sono, ci risiamo, hai bevuto, no, quanto hai bevuto, una coca tiepida, dai ricominciamo, sei pronto, no, che cosa vedi di fronte a te, un Kinder Pinguì, devi essere più preciso lo sai e non sbuffare, è un Kinder Pinguì mezzo scartato e c’è il segno di un morso, bene e poi, in cima c’è della saliva credo, credi che ci sia o c’è, sì c’è ed è la sua, una goccia brilla alla luce del lampione, mangialo tutto, che cosa, non lasciare nemmeno una briciola.

L’Inesistente
Credits: Egon Schiele, Reclining Male Nude, 1911, private collection, Vienna – https://www.fondationlouisvuitton.fr/en/events/egon-schiele