Quasi obliqua

Che poi nessuno le aveva detto di portare il bambino, proprio il giorno in cui si sarebbero dovuti discutere i ruoli del quasi annegamento colposo consumato presso un antico hotelluccio in mezzo al mare, chiamato semplicemente ‘il forte’ dagli addetti ai lavori; un forse omicidio avvenuto in data ormai non precisata, ma reale, almeno in parte, a giudicare dalla torre di carte accumulatesi in quei giorni di fine estate sul bordo del tavolo – domani temo che nessuno potrà andare a ripulire al forte, il vento è troppo forte – disse la ragazza madre, esaminando la pioggia picchiare sul vetro della finestra non completamente chiusa, e, oltre il vetro, le navi e le vele bianche, quelle che il padre di Teseo aveva atteso invano, dimenarsi sotto la luna crescente – se non possiamo andarci noi, non possono andarci nemmeno loro – borbottò il front manager, sfoggiando una pupilla più dilatata dell’altra, dall’aspetto poco sano, e una roba di Gucci ordinata online, una fettuccia rossoverde similcravattino, che sembrava il collare di un cane vestito a festa, mentre si riempiva il bicchiere azionando la manovella ramata di una mini cisterna in cui sguazzavano pezzi d’arancia della sera prima – dovremmo aggiungere dei cubetti di ghiaccio, quelli grandi, e magari del Campari, saresti così gentile da – il bambino, sputato un vagone del suo trenino sulla moquette rancida di nachos al formaggio, gli era corso giubilante incontro impugnando il biberon – cheers! – il bicchiere del front manager ondeggiò, una goccia cadde sull’angolo del primo foglio della torre di carte lì accanto, scomponendosi in un rivolo lungo il bordo di tutti gli altri fogli – qualcuno prima o poi ci andrà – sussurrò la ragazza madre, ripensando alla dieta paleolitica che quel pomeriggio aveva infranto ingozzandosi di orsetti Haribo, e al forte, e a tutte le possibili conseguenze di ciò che probabilmente era successo – eccola, sta arrivando – una figura femminile, quasi obliqua per via del vento, avanzava sulla diagonale del quadrato che separava il complesso residenziale dal porticciolo, guardando per terra e riavviandosi di tanto in tanto i capelli mézzi dietro l’orecchio; aveva un teschio floreale tatuato sull’avambraccio sinistro e nella destra stringeva una busta della spesa in rapida fase di biodegradazione – cheers! – replicò il front manager al gesto del bambino, che guardò un momento attraverso il biberon, nella pupilla più dilatata; aprì la bocca, ma non rise.

Entrò nella stanza sfilandosi le Converse nere borchiate d’oro senza chinarsi, faceva leva con un piede sull’altro – non ce la faccio, io non ce la faccio – una scarpa volò in direzione della ferrovia che il bambino aveva cominciato a costruire – mi hanno messo le mani al collo e stringevano, e mi dicono, adesso vieni a vedere come uccidiamo il tuo amico – il bambino decise che la scarpa era una collina con sopra fossili di animali luccicanti; la capovolse, così la ferrovia si bagnava e si capiva che la collina veniva dal mare – e io ero sola, sola su un fottuto cerchio di cemento circondato dalle onde, e quei due, le mani – il trenino, riagganciato alla locomotiva il vagone prima sputato per terra, fece una piccola deviazione e passò sopra la collina – cosa potevo fare, voglio dire, in quella situazione voi cosa avreste fatto? – il front manager le mise in mano il drink che aveva preparato per sé, prendendole la sporta; sbirciò al suo interno e la richiuse – non devi parlarne, se non vuoi – quindi andò dietro al tavolo, svuotò il contenuto della busta della spesa nell’umido e aprì il freezer – quanti ne restano? – chiese la ragazza madre, avvicinato il culone alla mini cisterna per farsi un refill di Negroni, benché tiepido – non lo so, io so solo che lì al forte non ci torno più, io non ci riesco – alzò il volume di Condition of the Heart, la sua canzone preferita, socchiuse gli occhi, e ondeggiando le mani a mezz’aria, osservò un punto imprecisato al di là della ferrovia – dite che fa parte del mio lavoro, ma non è così, sarò una pessima cameriera, ma questo casino non lo voglio più sparecchiare, non è giusto, io ero sola e quei due – il front manager aprì il coperchio della mini cisterna e ci buttò dentro dei cubetti di ghiaccio, quelli grandi – quei due strafatti di non so cosa, mi hanno costretta a vedere un uomo che affogava – il trenino aveva completato la circonferenza della ferrovia, anche se alcuni pezzi erano mancanti o non propriamente curvi – o che fingeva di affogare, che differenza fa? – la cameriera terminò il discorso lasciandosi cadere sul divano, ancora bagnatissima di pioggia salmastra, a gambe divaricate; i peli pubici in prossimità della vagina stavano visibilmente ricrescendo – concentrati per amor di dio – disse la ragazza madre – se vogliamo incastrarlo, dobbiamo rimanere concentrati, ha detto che dopo sarebbe passato – la cameriera spinse il braccio con il teschio floreale verso il vuoto dietro di sé, il front manager le dette un bacio a stampo – ti amo così tanto – e le riempì il bicchiere – quanti pezzi sono rimasti? – il bambino decise che la scarpa non era più una collina, staccò il vagone dalla locomotiva e se lo rimise in bocca.

L’Inesistente
Credits: Peter Doig, Lion (Fire Down Below), 2019, Micheal Werner Gallery, London