Il funerale di Biancaneve

Forse non era il classico psicopatico da film dalla sessualità ambigua che colleziona oggetti dimenticati o caduti o rubati dalle tasche della persona amata, che annusa i tuoi jeans appesi alla gruccia dello spogliatoio della palestra, che appende poesie e polaroid alle pareti della sua cameretta, che scrive diari segreti su cui appiccica figurine di calciatori e ciocche di peli, che scrive lettere col calamaio e lascia cadere una lacrima o una goccia del suo profumo in fondo alla lettera, ma forse sì, era proprio il classico psicopatico da film, e ti aveva fregato.

Ti aveva fregato, perché tu eri un ragazzo padre che desiderava una vita tranquilla, o per lo meno una vita lontano dalla follia, mentre lui, studente fuori corso di Storia dell’arte con una passione smodata per i manga, era una mente brillante, ma strutturalmente inquinata dal kitsch e da una disperata quanto ipertrofica necrofilia, rivolta soprattutto ai cadaveri classe 1793, e ovviamente alle bambole Disney, di cui era abilissimo a organizzare funerali.

Vi eravate incontrati in biblioteca, perché all’epoca avevi la presunzione di portare a termine il dottorato in Filosofia, prima che le montagne di pannolini del tuo figlioletto col cuore forellato ti soffiassero via il sonno, prima che la tua cornuta mogliettina scappasse in uno sperduto villaggio a piedi dell’Himalaya infestato da cani deformi per depurarsi con cavolfiore intriso di marmitta e svendere giubbottini tarocchi della North Sales o ministatuine in terra non cotta di Ganesh a backpacker equi e solidali e terrorizzati, polverizzando ogni orizzonte di gloria dalla lavagna del tuo futuro con un colpo di cimosa.

Ti aveva fregato, perché dopo quell’incontro libresco ti eri convinto che fosse un ragazzo colto, ipersensibile, ma neanche troppo assillante e fondamentalmente innocuo, che si era presa una cotta per te, e tu avevi abboccato ai suoi complimenti per lamentarti, per sciabordare addosso ai suoi vestiti variopinti, i rimpianti che lui, accucciandosi ai tuoi piedi nei vostri ripetuti incontri, leccava con dovizia come un elisir di lunga morte.

Innocuo, sì, eppure avevi cominciato a immaginarlo in situazioni bizzarre, ad esempio mentre accarezzando il suo Chihuahua incontinente, fissava compiaciuto l’altare per il tuo funerale corredato da teca di vetro su misura coronata d’alloro per la tua testa imbalsamata, e ti dicevi che era fragile come un pulcino di miele nel palmo della tua mano, che queste stranezze non solo dovevano essere tollerate, ma potevano perfino essere apprezzate come manifestazione di un animo romantico, drammaticamente destinato all’amore non corrisposto e all’infelicità eterna e a comunicare con l’altro se e solo se da una posizione sottomessa.

Era infatti logico pensare che dietro questa etichetta di facile follia vi fosse della sostanza, qualcosa che ti affascinava tanto da scrivergli la dedica se fuori uccidono il romanticismo, noi non dobbiamo restarne fuori – perché restare dentro il fuori era necessario a sabotarlo romanticamente dal di dentro – non credi? – così come un terrorista prende lo scuolabus come tutti gli altri bambini per farsi esplodere insieme a loro. Ecco, ti aveva fregato.

Il tarlo della follia rosicchiava un foro sempre più profondo nel timpano, l’ultimo strato del quale avrebbe rappresentato l’estrema pagina della tua storia, dopodiché un effluvio continuo di pagine bianche detonato da un automa in grado di ricomporsi ogni giorno a mezzogiorno, con una riserva infinita di carta nel suo ventre, diciamo più o meno tutte le foreste di tutte le possibili vie lattee, avrebbe segnato l’inizio e la fine della tua non storia, e le pagine sarebbero scese come fiocchi di neve a stratificarsi sull’impronta del tuo ex cervello.

Tu che finalmente eri riuscito a conquistarti un posto di lavoro che, se non era una petrosa Itaca cui approdare dopo anni di preziose circumnavigazioni, era certamente uno scoglio in cui proteggersi dai marosi, un buco in odore di sanità, ti sei lasciato gabbare da una devota fatina dei boschi assassina con alucce di plastica e ombretto azzurro fluo sulle palpebre: così agghindato, il padrone del Chihuahua incontinente, ti aprì i cancelli del suo paradiso.

Ti aveva detto di venire un po’ più tardi, perché si stava truccando per te e pensavi fosse uno scherzo, ma non era uno scherzo, e non si era limitato a travestirsi da fatina dei boschi né a preparare i biscotti con gocce di cioccolato: voleva condurti a un livello successivo. Non più toccanti gossip sui manga o su sovrani decapitati nel fiore degli anni: voleva farti provare l’esperienza di una cerimonia funebre che condensasse tutti i suoi stucchevolissimi orpelli nell’idea di postromanticismo di cui tu eri riuscito a imbottirgli la testa, e quel giorno sarebbe stato il turno di Biancaneve. Magari anche il tuo, pensavi.

Troppo tardi per rivalutare il Settecento illuminista, che comunque di teste ne aveva fatte ruzzolare parecchie, prima di elaborare raffinate teorie sulla tolleranza. Avevi il dubbio che il biscotto ormai semimasticato nel tuo cavo orale fosse avvelenato, ma ormai sentivi di aver oltrepassato una soglia, che quel veleno era la tossina della svolta, e che avresti compreso il linguaggio di questo nuovo moto perpetuo, di questa non storia in cui non ti saresti sorpreso se ti fossi trasformato in elfo addetto alle pulizie del mastodontico ospedale in cui erano ricoverati tutti i corpi decapitati della storia che non avevano smesso di spruzzare sangue nell’aldilà, con le rispettive teste imbalsamate riposte in teche di vetro su misura coronate d’alloro accanto alle loro brande.

Biancaneve giaceva sul tavolo della cucina in un letto a baldacchino foderato di velluto rosso, un grumo di cera le illuminava il viso, un viso splendidamente opportuno, anche se lei non era mai stata vera. Il biscotto avvelenato cominciava a salire come un’esplosione di pagine bianche nella testa, e quando nel chiaroscuro della cerimonia ti chinasti a baciare la guancia della più bella del reame, la fatina dei boschi sorrise e preparò la ghigliottina.

L’Inesistente
Credits: Benjamin Lacombe, Blanche-Neige, 2010