Alla fine dello sterno

Le pareti della camera 631 erano rivestite di cartoncino bristol nero, perché il tipo poco più grande di lui con baffetti hitleriani e Svapo in bocca che l’aveva convinto, in cambio di una bottiglia di Rosé tiepido da sorseggiare durante il lavoro di shooting, a posare per la sua vagamente scopamica e vamp dell’Accademia di Belle Arti cui era venuta l’illuminazione di fare uno studio sul Penseur di Rodin, ossia dipingere qualcosa a partire da fotografie scattate a un umano in posa, oltre a dormirci, in quel posto, e a sottolineare dialoghi platonici fotocopiati e a scoparsi le sue amiche, aveva deciso di adibirlo a tana per lo sviluppo fotografico ai vapori di mercurio e a punto di accumulazione di manichini rovinati ma ancora snodabili presi al centro commerciale dove faceva il magazziniere e guardiano notturno part-time, una tana pensata per esplorare gli interstizi esistenziali lasciati scoperti dalle giarrettiere del meccanicismo cartesiano, teoria data tacitamente per inoppugnabile, cui si sovrapponeva un certo gusto macabro per il trascendentalismo medievale, un nichilismo da discoteca del giovedì sera con shot a un Euro, nonché, ça va sans dire, il migliore dei mondi possibili.

Quel giovedì sera il barista aveva deciso di non andarci in discoteca, perché fare il modello, denudarsi di fronte a degli artisti o filosofi o presunti tali, gli sembrava assai più simbolico ai fini del suo percorso di crescita spirituale, inoltre era un narcisismo piuttosto facile da titillare, il suo, tanto che era bastata mezza frase espirata sul bancone del bar insieme a un anello di fumo elettronico mentre lui, dall’altra parte, asciugava un calice facendo scivolare con le dita nell’incavo uno straccio rosso – Ehi, sai che saresti perfetto… – per ammaliarlo e spingerlo istantaneamente al gran rifiuto di sperperare la paga in una nottata di shot.

Il barista li aveva raggiunti alla casa dello studente accaldato, non solo per l’adrenalina pompatagli nelle vene dalla prospettiva del megaevento di cui sarebbe stato protagonista, che lo faceva sentire invincibile e, allo stesso tempo, delicata preda dell’eccitante quanto incontrollabile morsa di una grande mano guantata che lo palpeggiava nera da quando al bar aveva mentalmente inciso il suo dentro quel cerchio svaporato, ma anche perché alla Coop dietro l’angolo si era attardato nella compera di un orsacchiotto di peluche da regalare alla tipa del fotografo. Ne scelse uno in saldo, grigio, con un occhio più piccolo dell’altro.

Lei lo accolse schioccandogli un bacio avvinazzato sulla guancia, e lanciò un urletto tipo wow! alla vista dell’orsacchiotto, portandolo dietro il mirino della Nikon D500, che il fotografo stava finendo di montare sul treppiede.

Evidentemente la bottiglia di Rosé era già stata battezzata in sua assenza, ma lui si sentiva tutt’altro che escluso e si attaccò alla bocca della bottiglia come fosse il primo sorso, il sorso più puro che mescolava la saliva dei suoi amici alla sua, sotto lo sguardo vigile di tutti quei manichini, quindi si tolse le camicia, le scarpe, i pantaloni, i calzini – no, quelle lasciale! – disse lei che, tornata vicino a lui, gli guardò le labbra bagnate – non serve che ti tolga le mutande – aggiunse buttando il fumo succhiato dallo Svapo del fotografo verso la luce.

La luce avrebbe colpito più che altro le ginocchia e il petto, spiegò lei toccandogli la clavicola sinistra con un polpastrello gelido che scese fino alla fine dello sterno dandogli l’impressione di averlo già sentito addosso e in più punti del corpo, e gli occhi di lei gli sembravano sempre più irrequieti, come se si sforzassero di non fermarsi nei suoi, e lui ricordò di aver già vissuto la fuga di quello sguardo, quando in discoteca avevano limonato a lungo e poi si erano incastrati nel bagno delle donne, forse per inerzia, forse contro la volontà di lei.

Un’ora e mezza passata sullo sgabello gli era parsa lunghissima, non che non si fosse divertito all’inizio, ma allargare le gambe in quel modo, puntellando il mento sul pugno e il gomito sul ginocchio, mantenendo l’equilibrio, la tensione e la giusta posizione dei piedi e l’espressione di un belloccio pensante in 2D, con tutte quelle facce senza occhi e gli occhi di lei e l’obiettivo della Nikon D500 a rubargli l’anima a intermittenza costante, e considerando che la bottiglia di Rosé era finita dopo cinque minuti e che lui era rimasto quasi nudo tutto il tempo, per la prima volta da quando era entrato nella stanza provò un sentimento di vergogna, e cominciò a tremare: il ricordo di quell’incastro adesso era troppo forte, i muscoli gli facevano male, si sentiva altrove, il cervello cotto al vapore, e alla fine dello sterno gli pulsava con violenza il cuore, così si rimise in fretta i vestiti e andò via senza neanche riuscire a dire ciao.

La sera del giovedì successivo si accorse di non aver ancora parlato con anima viva e, mentre finiva di asciugare i calici, si chiese se non avesse perso l’uso della parola, si chiese se una parola qualsiasi potesse servire a riportarlo qui, a staccargli il cuore scivolatogli alla fine dello sterno e rimetterlo al suo posto.

Riposto l’ultimo calice sullo scaffale simmetricamente in fila accanto agli altri, uno su e uno giù, secondo quella forma che gli ricordava due lische di pesce sovrappostesi per inerzia o contro la loro volontà, si sfilò il grembiule e corse alla casa dello studente. Provò a bussare molte volte, ma non sembrava più esserci nessuno nella camera 631: alla maniglia penzolava impiccato un orsacchiotto, grigio, con un occhio più piccolo dell’altro.

L’Inesistente
Credits: Egon Schiele, Standing male nude with red loincloth, 1914